Delicatessen millenarie: i formaggi della “girgentana”

 

“La capra girgentana era davanti alla cucina, al pianerottolo. Bellissima, con le corna a torciglione, la barbetta puntuta e il ciuffetto sotto le corna. Il pelo lungo era bianco, a eccezione del muso: i vispi occhi orlati di marrone sembravano enormi. Calato dietro la capra, il giovane la mungeva (…)”.

Siamo a Favara, non lontano da Agrigento, dove Simonetta Agnello Hornby ha ambientato la sua storia, attingendo probabilmente dai suoi ricordi di infanzia, quando i caprai andavano in giro per le campagne dell’agrigentino, di paese in paese, con il loro gregge di capre girgentane. Annunciati dall’inconfondibile scampanellio, erano ricevuti di porta in porta, davanti alla cucina dei loro clienti a cui vendevano ogni giorno il latte appena munto. L’infanzia, per le persone anziane di questa parte della Sicilia, a vocazione fortemente rurale, ha il sapore del latte di capra girgentana: dolce, squisito, con un retrogusto di frutta secca. Apprezzato universalmente come un prodotto molto digeribile, con basso odore ircino e un ottimo equilibrio tra grasso e proteine, questo latte ha cresciuto generazioni intere di siciliani.

Anche Giacomo Gatì, campobellese e figlio di contadini, ne ricordava il sapore con nostalgia.

Emigrato, come tanti suoi concittadini, in Germania, dove aveva vissuto per dieci anni, nel ’79 fa ritorno in Sicilia. Qui si occupa di cooperative agricole e sociali e di agricoltura biologica. Quando decide di costruirsi la sua fattoria pensa subito alle belle capre girgentane: “mi ricordavo di quelle che giravano per i paesi con il capraio, quando ero bambino” racconta “ma era impossibile trovarne: non ce n’erano più”.
Era successo che nel nome di norme igienico sanitarie, era stato proibito l’ingresso nelle zone abitate delle capre, per via degli escrementi che lasciavano al loro passaggio. Ma impedendo ai caprai di vendere il latte delle loro capre porta a porta, queste leggi sancirono di fatto la lenta e inesorabile decimazione di questo bellissimo animale che non aveva più ragione di essere allevato. La capra girgentana stava iniziando a scomparire dal territorio.

Immagine su cratere in terracotta ritrovato durante scavi intorno alla Valle dei Templi - V sec a.C.Originaria dell’Afghanistan settentrionale, dove venne osservata dal naturalista inglese Falconer (da cui l’antenata della nostra prese il nome capra falconeri) venne probabilmente portata da Alessandro Magno in Grecia da dove sbarcò poi in Sicilia, circa 2.500 anni fa. Se ne ritrovano riproduzioni su crateri e sarcofagi greci rinvenuti in diversi scavi attorno ad Agrigento, la antica Girgenti, da cui di fatto la capra girgentana prende il nome (fu solo nel 1927, per ordine di Mussolini, che la città della Valle dei Templi cambiò il suo nome da “Girgenti” in “Agrigento”).

Aveva vissuto e prosperato per millenni, resistendo e adattandosi a migrazioni e guerre puniche, ma alla fine degli anni ’90, quando Giacomo ne cercava qualche esemplare per la sua fattoria, erano rimasti meno di 600 capi su tutto il territorio siciliano: la capra girgentana era diventata una specie in via di estinzione.

Sarcofago - Valle dei Templi - V sec a.C.“Capii che l’unico modo per garantire la sopravvivenza di questo animale e salvarlo dall’estinzione era fare in modo che generasse un reddito per chi lo allevasse”. Un ragionamento semplice, pragmatico e geniale che portò alla concezione dell’idea di produrre un formaggio da latte di capra girgentana, oggi produzione di eccellenza e presidio Slow Food.

“Nessuno aveva mai prodotto formaggi di questo tipo” spiega Ignazio Vassallo, responsabile Slow Food di questo Presidio, “il latte di capra girgentana contiene poca beta-caseina, la proteina necessaria alla produzione del formaggio: veniva quindi per lo più aggiunto a quello di pecora per ricavarne pecorino”.

Immagine su antico cratere greco, Valle dei Templi - V sec a.C.Pioniere in questo campo, dunque, Giacomo propone il progetto ad alcuni caseifici della zona, ma nessuno crede alla sua idea: “Decisi di mettermi in gioco e di provare a produrre formaggio da solo”. All’inizio come un hobby, creandone quantità minime e invitando poi gli amici ad assaggiarle. Il signor Gatì inizia a studiare da autodidatta, a chiedere in giro, a documentarsi attingendo da ogni fonte possibile il sapere necessario per dar forma a quest’arte. “Il fatto che non avessi nessuna esperienza e nessuna tradizione a cui rifarmi” racconta Giacomo “se da un lato ha rappresentato una difficoltà non indifferente, dall’altro mi ha permesso di spaziare senza limiti né paletti per la creatività”.

Dopo 2-3 anni di test e sperimentazioni, nel 2004 Giacomo apre la sua Azienda Agricola Montalbo, un piccolo caseificio artigianale che ancora esiste a Campobello di Licata, in provincia di Agrigento, e che oggi processa 70mila litri di latte di capra girgentana all’anno, producendo circa 30 tipi diversi di formaggi che vende non solo in Italia ma anche all’estero (Francia, Olanda e Inghilterra), per un fatturato annuo di circa 200mila euro. Applaudito da estimatori, ricercato da gourmet e chef stellati, il formaggio di capra girgentana è diventato con gli anni un prodotto di eccellenza, fiore all’occhiello del patrimonio gastronomico siciliano, ricercato e ammirato non solo nell’isola ma anche in Italia e fuori dai confini nazionali. “Slow Food è stata un volano fondamentale per questo progetto” tiene a sottolineare Giacomo: “La creazione del presidio e la possibilità di esporre a fiere quali Il Salone del Gusto di Torino o Cheese di Bra ci hanno permesso di raggiungere un’importante visibilità nazionale e internazionale”.

Oggi accanto a Giacomo c’è un giovane campobellese di 30 anni, Davide Lonardo che con la moglie Valeria Orlando ha rilevato l’attività da un anno per dare continuità al progetto. “È un lavoro che comporta molti sacrifici” racconta Davide. “Le capre vanno munte tutti i giorni, non ci sono festivi né ferie, ma regala anche tante soddisfazioni”. Tra i tanti riconoscimenti Davide ne ricorda uno emblematico: “Nel dicembre del 2015 un affinatore francese ha incluso uno dei nostri formaggi in un plateau di forme francesi di capra”. Un po’ come essere invitati a suonare assieme a una famosa band jazz in un bar di New Orleans.

Inutile dire che abbiamo voluto sapere qual era il formaggio ammesso nella cattedrale sacra dei formaggi di capra: si tratta del FICU, un formaggio a pasta morbida e spalmabile, a coagulazione vegetale. La sostanza usata per innescare la coagulazione è il latticello della pianta del fico, le cui foglie avvolgono la forma di formaggio durante la stagionatura, regalandole un ulteriore aroma. Si caratterizza per un gusto erbaceo molto lungo e una bassa acidità. Nella concezione di questa ricetta Giacomo si fece consigliare addirittura da Plinio il Vecchio che nelle pagine del suo Naturalis Historia indicava, quali sostanze alternative al caglio animale, la pigna, il cardo o il fico: “di chi fichi ne abbiamo tanti in Sicilia…” sorride Giacomo allargando le braccia.

7. Muscio, il preferito di Ciccio SultanoI nostri preferiti in questa meravigliosa degustazione: il “Muscio”, il favorito anche di Ciccio Sultano, che lo usa spesso nella creazione delle sue stellate ricette barocche: crosta spessa e semidura con un interno cremoso e una stagionatura di circa un mese, ricorda un brie delicato e scioglievolissimo. Le robiole aromatizzate al pistacchio e al papavero. Il “Palbec” (“palle di becco”): piccante e irriverente nel nome e negli ingredienti: formaggio cremoso a coagulazione lattica ricoperto di pepe nero e aromatizzato con aglio in polvere, pochissimo il caglio aggiunto, questo formaggio si ottiene da una coagulazione lenta, di circa 24 ore, che gli conferisce una cremosità e un aroma particolari.

Abbiamo amato il “Sarbaggio” (“selvatico”, in dialetto siciliano), di pasta compatta con una crosta sottile ma scioglievole in bocca che termina con un inaspettato residuo floreale in bocca, dolce ed erbaceo: è il finocchietto selvatico che battezza questa forma. Usato come caglio vegetale nel processo di coagulazione conferisce al formaggio questo inconfondibile aroma. Ci hanno sorpreso il “Lumìa” (“limone” in dialetto siciliano) la caciotta affinata nelle foglie di limone, esteticamente bellissima, che sprigiona un delizioso aroma agrumato, o quella stagionata nella cenere del legno di mandorlo, con un sentore di noci verdi. E infine lo “Scirocco”: formaggio prodotto senza l’utilizzo di alcun tipo di caglio, nato da un errore, come spesso è avvenuto per tante ricette -di cibi e vini-poi diventate celebri,  in una giornata in cui questo vento africano, caldo e afoso, ha fatto inacidire anzitempo il latte appena munto, conferendo al formaggio un carattere particolarissimo. Pasta dura, saporitissimo e piccante: ottenuto grazie alla naturale acidità del latte, senza aggiunta di alcun tipo di caglio.

Mentre degustiamo, Giacomo riceve una chiamata da Parla come mangi, “sartoria dei sapori” di Rapallo, boutique di prodotti eno-gastronomici italiani di eccellenza: vogliono i suoi formaggi. “Non riusciamo a far stagionare il prodotto per più di 8-12 mesi perché lo esauriamo prima” sorridono con orgoglio Davide e Giacomo, che nel frattempo hanno fatto scuola: alla data attuale in Sicilia, oltre ai due campobellesi, esistono altri tre produttori di formaggio di capra girgentana. Non del tutto uscito dall’area rossa del rischio di estinzione, questo bellissimo animale è comunque ormai considerato fuori pericolo: in un decennio il numero di esemplari sul territorio è raddoppiato fino ad arrivare ai circa 1300 capi dei nostri giorni.

Un finale felice per una storia che parla di tutela del territorio, salvaguardia della biodiversità, creazione di un’eccellenza, creatività umana e intelligenza. Una storia che dice molto di quella Sicilia che più ci piace, e che merita di essere raccontata.

di Giovanna Abrami


 

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