Nato nel 1954, Carlo Ferrini, fiorentino DOC (nonché tifoso appassionato della Fiorentina), dopo gli studi all’Istituto Tecnico Agrario della città natia, si laureò in agronomia all’Università di Firenze nel 1978 benché all’epoca gli interessasse molto di più la zootecnia, le vacche per essere precisi, dell’uva. Ciononostante il suo lavoro professionale iniziò nel laboratorio del Consorzio Chianti Classico. Alla decisione del capo tecnico del consorzio, Maurizio Castelli, di darsi alla consulenza, Ferrini gli subentrò e passava gli anni Ottanta in giro per il vasto spazio fra Firenze e Siena, facendosi le ossa in una zona in piena rivoluzione qualitativa che coinvolgeva sia le vigne che le cantine. Libero professionista sin dal 1991, è diventato con ogni probabilità il winemaker che, col tempo, ha operato con il maggiore raggio d’azione d’Italia, spaziando dall’Alto Adige fino a Pantelleria. La Sicilia è entrata nella sua sfera d’influenza nei primi anni del nuovo millennio ed è diventata, con il passare del tempo, uno dei principali teatri di azione, impiegando, in aziende sparpagliate dappertutto in Trinacria, perlomeno una settimana del suo mese lavorativo
L’intervista che segue si concentrerà sui territori e le loro uve, le vocazioni e l’evoluzione stilistica dei vini stessi.
D. Ha mosso i primi passi come consulente essenzialmente in Toscana e con una serie di aziende – Fonterutoli, Poliziano, Le Corti, La Massa, Brolio, Casanova dei Neri – prestigiose sia allora che ora, come è arrivata la decisione, ossia la possibilità, di spostarsi in Sicilia
Sono stato contattato dal Conte Lucio Tasca D‘Almerita, la cui azienda era già la maggiore casa privata dell’isola sia per quanto riguardava i numeri che per la diffusione commerciale, dati di fatto che indicavano un notevole livello qualitativo unito ad un acuto spirito imprenditoriale. Il Conte, nonostante l’importanza storica e il rango della casata, ama definirsi “imprenditore vinicolo”, e possiede quella qualità indispensabile per chi vuole sfondare nel nostro campo: la dinamicità, il desiderio di migliorare sempre. I vini erano sicuramente buoni, spesso molto buoni, ma lui era convinto che margini di miglioramento ce n’erano e sperava che potessi dargli una mano. Forse il fatto che in certe aziende toscane avessi dovuto gestire le produzioni di superficie vitate piuttosto estese contava a mio favore. Ho avuto come cliente aziende tipo “boutique winery”, uno dei miei primi progetti era la collaborazione con l’azienda Riecine a Gaiole in Chianti, pochi ettari e poche bottiglie, ma ho sempre ritenuto che il professionista dimostra il suo vero valore riconciliando qualità e quantità, arrivando dove ci sono le vigne a disposizione, a numeri significativi senza sacrifici o compromessi qualitativi. Entro i limiti del possibile, non tutte le vigne possono dare le uve per grandi vini ma dobbiamo sforzarci a realizzare vini di notevole gradevolezza laddove la struttura importante non è possibile.
D. Cosa ha trovato all’arrivo a Sclafani Bagni?
Ovviamente una superficie vitata molto estesa e una cultura viticola di buon livello, direi che la vigna fosse avanti rispetto alla cantina. Il principale obbiettivo, discusso e assolutamente concordato con il conte, era una maggiore eleganza nei vini, inutile cantare, come Nino Manfredi nel film “Pane e Cioccolato”, le virtù del “nostro sole, nostro mare”, il conte non voleva accontentarsi dei classici pregi dei vini meridionali, il calore, l’ampiezza, voleva più finesse e complessità, più espressività. Fortunatamente l’azienda aveva la possibilità di raggiungere questi obiettivi, le altitudini sono importanti e con esse le escursioni termiche, l’aromaticità e la freschezza, il Catarratto che si produce a quote riguardevoli, ad esempio, è totalmente diverso da quello piantato in pianura. Ho avuto l’aiuto di un giovane enologo aziendale formatosi ad Alba, Tonino Guzzo, che dopo la sua esperienza in azienda ha fatto pure lui molta strada come libero professionista. C’era un’identità di vedute molto forte, bastava trovare i protocolli di vinificazione e affinamento adatti a centrare gli obiettivi.
D. In cosa consistevano questi nuovi protocolli?
Effettivamente levare il piede un po’ dall’acceleratore, il sole, come sappiamo c’è in Sicilia, era facile che scappassero le gradazioni alcoliche che, fra l’altro, certi mercati credevano connaturali all’isola anche se non è così, con una maggiore attenzione alle maturazioni e alla data di raccolta si può benissimo ottenere vini sicuramente ricchi e ampi ma più equilibrati e più bassi di alcool. Le estrazioni sono diventate più graduali, senza forzature sia di temperature sia di movimento della massa e gli affinamenti impiegano molto meno legno nuovo e formati più grandi, punto molto sui tonneaux, che contengono 500 litri di vino, più del dopo della barrique da 225 litri, secondo me c’è un rapporto rovere/liquido molto più composto, centrato e corretto.
D. A parte la reimpostazione dello stile dei vini la consulenza si occupava di altro?
Certo, c’è stato lo sviluppo di altri vini per allargare la proposta, il Leone Bianco e Lamùri, un Brut metodo classico con una maggiore permanenza sui lieviti e anche vini dolci a base di Moscato e Traminer. Poi, con l’espansione dell’azienda, ho avuto la possibilità di lavorare in nuove zone con uve molto diverse da quelle che avevo trovato nel palermitano: il Grillo, varietà che adoro e che mi dà grandi speranze per il futuro, la Malvasia a Salina, i vini dell’Etna, bianco e rosso, dove i vigneti sono in alto, nella zona di Passopisciaro, uno veramente bello con un settantina di anni di vita e, in via di sviluppo pure un Perricone, un “work in progress” su cui preferisco non commentare ancora. Forse a questo punto dovrei aggiungere – benché la collaborazione sia partita dopo – i vini dell’azienda Sallier de la Tour, famiglia che, nonostante il nome e le origini, savoiarde, è fermamente radicato da generazioni nella Sicilia occidentale, a Camporeale per essere precisi. Non conoscevo la zona, la tenuta comprende un’ampia gamma di varietà sia siciliane (Inzolia, Grillo e Nero d’Avola) che internazionali (Syrah, Cabernet Sauvignon, Petit Verdot) e in questo caso ho dovuto lavorare con le vigne ho trovato. La casata è imparentata con i Tasca D’Almerita che si occupano del marketing, il mio compito era di migliorare la qualità della proposta e, a giudicare dai risultati commerciali la tenuta ha iniziato a ritagliarsi il proprio spazio sul mercato. Posso dire senza ombra di dubbio che l’uva che dà i risultati più interessanti è il Syrah, la selezione il Syrah La Monaca è uno dei vini siciliani che mi sta dando più soddisfazione fra quelli che curo. Non sono in grado di dare una spiegazione geologica o climatica, posso solo dire che è così, pare che ci sia una grande vocazione per questa uva a Camporeale.
D. Alle prese con una casa così importante e una linea così complessa sembra logico che dovesse darsi da fare durante i primi anni in Sicilia.
Verissimo, il prossimo progetto che ho accettato era verso la fine del 2004 e l’inizio del 2005 e, sebbene si trattasse di Nero d’Avola, l’uva rossa principale coltivata a Sclafani Bagni, la zona era totalmente diversa, stiamo parlando dell’azienda Zisola di Noto, ho preferito questo sito quando ho cominciato a sviluppare il progetto con la famiglia Mazzei, i proprietari del Castello di Fonterutoli con cui lavoravo già. C’è un po’ di altitudine in un’area tendenzialmente bassa, quindi più escursione termica e una maggiore ventilazione. Abbiamo piantato Syrah insieme con un po’ di Tannat e Petit Verdot, a cui più recentemente abbiamo aggiunto Grillo e Catarratto. La base del lavoro però è ovviamente il Nero d’Avola per il nostro Noto Rosso. Le vigne sono tutte ad alberello, un punto fermo per me in Sicilia e qui, come altrove, impieghiamo sempre di più i tonneaux per meglio riconciliare vino e rovere nel prodotto finito.
D. Tornando invece ai nuovi vini impostati e realizzati con la Tasca D’Almerita ha citato i vini dell’Etna, aveva già avuto la possibilità di conoscere questo vulcano e i suoi vini?
Sì con un’azienda nuova, fondata nel 2005, Pietradolce di Castiglione della Sicilia, dove i proprietari, i fratelli Faro, vivaisti con una vera e grande passione per le piante, volevano cimentarsi con il mondo del vino. Le uve erano del tutto diverse da quelle che avevo lavorato altrove ma era l’ambiente che mi ha fatto innamorare della zona, del Carricante e Nerello Mascalese. Vedere queste terre nere, i terrazzamenti, i vecchi alberelli – abbiamo delle vite prephylloxera, le altitudini, sino a 900 metri s.l.m., tutto è un’emozione fortissima per chi lavora nel nostro mondo, e l’aver contribuito in qualche maniera alla rinascita di questa realtà unica può solo essere una soddisfazione immensa. Ho avuto l’opportunità di partire da zero, c’erano le vigne, che ormai sono diventate 13 ettari, ma l’organizzazione della linea era la nostra responsabilità ed è stata fatta nel modo più classico possibile. C’è un bianco base e una selezione, un rosato e quattro rossi: un vino base, una selezione di partite superiore di diverse provenienze (l’azienda possiede due appezzamenti in Contrada Rampante e un altro in Contrada Zottorinoto) e due svini superiori basati su selezioni di località specifiche, il Contrada Rampante e il Vigna Barbagalli, l’ultimo un vero e proprio cru. Anche le vinificazioni sono classiche: in acciaio inossidabile sia per il Carricante e il Nero Mascalese, acciaio per l’affinamento dei vini bianchi mentre i rossi sono affinati in tonneaux di cui solo il 30% è nuovo, questi vini devono essere la più pura espressione possibile della montagna, non vogliamo né aggiungere né togliere nulla, dobbiamo mettere le nostre energie e conoscenze al servizio di vigne che non assomigliano ad altre in qualsiasi parte del mondo. Per noi è un privilegio.
D. Hai avuto la possibilità di lavorare nella più storica zona di tutta la Sicilia, il trapanese, in particolare nella zona di produzione della Marsala?
Sì, è un progetto più recente con l’azienda Rallo benché i proprietari originali, la famiglia Rallo, l’hanno ceduta ai Vesco nel 1996. Io non mi occupo dei vini liquorosi, bensì dei bianchi e rossi prodotti dalle uve coltivate all’azienda agricola di Alcamo. Questa parte della Sicilia ha sempre puntato sulle uve bianche e noi proseguiamo nel solco di questa tradizione, c’è un blend di Nero d’Avola e vitigni internazionali e un altro a base di Nero d’Avola in purezza e affinati nei legni piccoli, ma il grosso della produzione consiste in vini bianchi che impiegano i nomi familiari e storici: Grillo, Insolia, Catarratto. Questi ultimi dimostrano di aver trovato una terra benedetta, abbiamo vigne che vanno fino a 500 metri di altitudine e ci danno un’ottima escursione termica, le condizioni meteorologiche infatti sono così favorevoli che possiamo praticare una viticoltura biologica e i progressi fatti negli ultimi anni sono stati notevoli, come d’altro in molte altre zone dell’isola. All’inizio c’era un senso che i produttori cercavano – a volte con un po’ di incertezza – un concetto di qualità. Molti purtroppo credevano che dovessero soddisfare certe aspettative da parte del mercato, ma ora c’è più familiarità con le uve e i territori e sembra normale permettere che essi si esprimano al meglio.
D. Pare che non ci siano molte aree della Sicilia con cui non hai avuto la possibilità di un lavoro proficuo.
Davvero, e una delle meno conosciute è la DOC Faro, un francobollo di terra presso la città di Messina, l’unica zona – sebbene stiamo parlando di pochi ettari – che sinora ha espresso un Nerello Mascalese capace di reggere il confronto con gli importanti rossi dell’Etna. Con le dovute differenze, ovviamente, una delle quali è la presenza del vitigno Nocera nel taglio. Ho avuto in questo caso, nella collaborazione con l’azienda Casematte, il piacere di lavorare in un posto con vista mozzafiato, lo stretto di Messina, Scilla e Cariddi, la città di Reggio Calabria che sembra così vicina da poterla toccare. Il proprietario, un commercialista siciliano innamorato, anzi “malato”, di vino ha trovato una nuova vita in questo posto isolato a 500 metri s.l.m. e lavora con una passione che è commuovente. Abbiamo iniziato con i rossi, ora abbiamo pure un bianco a base di Grillo e Carricante e i vini guadagnano di eleganza ogni anno.
D. Basta così?
Per niente, sono tornato “sul luogo del delitto” se vogliamo metterlo in questi termini, a Camporeale vicino alla proprietà dei Sallier de la Tour, che ovviamente conosco molto bene, casa – Alessandro di Camporeale – vecchia di diverse generazioni, dai primi del Novecento per essere precisi, ma che ha deciso di cambiare marcia. La cantina, rifatta ai primi del nuovo millennio, è molto ben attrezzato, la viticoltura è biologica e completamente manuale. Vengono prodotti, oltre ad un pochino di Sauvignon, il Grillo e il Catarratto, tutti fermentati e affinati in serbatoi di acciaio inossidabile ma il grosso della produzione è di vino rosso, Nero d’Avola e Syrah. Sono stato fortunatamente premiato dalla qualità raggiunta con quest’ultima uva, questa parte dell’alto Belice (siamo sulle colline che sovrastano le pianure di Mandranova, le quali paiono molto vocate per questo vitigno francese, a parte quello della Sallier de La Tour che ho già citato, so che si tratta di uno dei vini importanti delle vicine tenute Rapitalà dove, per l’appunto, la presenza francese è sempre stata molto sentita). Come di solito individuare un unico fattore responsabile per i risultati ottenuti non è possibile, sarà come sempre la sinergia fra terra e clima ma mi permetto di dire che il luogo si sta già consolidando come una delle fonti dei migliori Syrah della Sicilia.
D. Un vero tour de force, quando trova il tempo di tirare il fiato?
Sarà ancora più difficile nei prossimi anni perché ultimamente ho chiuso un po’ il cerchio con un produttore del ragusano, Avide. Azienda produttrice sin dal tardo Ottocento con sede e vigneti a Comiso a nordest di Vittoria. Ci sto lavorando da poco, ma avrò la possibilità di fare un Nero d’Avola di timbro molto diverso da quelli già realizzati vista la diversità dei suoli e soprattutto di misurarmi con il Frappato, varietà che giustamente sta suscitando grande interesse per la sua spiccata personalità, frutto, morbidezza e fragranza. La Sicilia mi ha dato tanto e cerco di ripagarla con il massimo contributo che quasi 40 anni di professione possono dare.
di Daniel Thomases