Nato a Siena nel 1970 – ottima annata come lui sottolinea con un sorriso – Alessandro Cellai si definisce chiantigiano poiché è cresciuto a Castellina in Chianti, nel cuore della zona classica. La famiglia non si occupava né di viticoltura né di vino, ma il giovane Cellai ha avuto la fortuna di trovare un enofilo in famiglia, uno zio per essere preciso, amante di vino nonché sacerdote, la cui pieve aveva un vigneto.
Era lì che la passione viticola e vinicola è nata e il prossimo passo, logicamente, era la scuola enologica di Siena che, a quell’epoca, sfornava con regolarità tecnici che hanno fatto la storia della zona: Attilio Pagli, Claudio Gori, Paolo Caciorgna, Leonardo Bellaccini e via dicendo. Insieme con produttori quali Giacomo Neri, Giuseppe Gorelli e Simone Santini. Poi sono seguiti studi di chimica alla università di Firenze.
Arrivò l’iniziale esperienza professionale durante la prima metà degli anni ’90, quella del direttore tecnico della cantina Rocca delle Macie, addirittura a Castellina in Chianti, dove Cellai si occupava dei vigneti e dell’uva; le vinificazioni invece venivano gestite dal trentino Giovanni Gaspari. A metà decennio il salto di qualità (e di responsabilità) definitivo, con la nomina come direttore dell’azienda Castellare di Castellina, sempre e comunque nel comune di nascita. Qualche titubanza all’inizio, poiché doveva prendere in carico tutto, ma le rassicurazioni lungimiranti del titolare, Paolo Panerai, si sono rivelate profetiche: “un buon tecnico può apprendere le problematiche di amministrazione e marketing, ma un esperto di questi settori non potrà mai imparare ad occuparsi della vigna e della cantina”. Il ventennio successivo ha dimostrato che Panerai aveva visto giusto, e Cellai non solo ha preso benissimo le redini della parte chiantigiana delle attività del titolare ma ha avuto un ruolo chiave nell’espansione alla Maremma e alla Sicilia di ciò che è diventato i “Domini Castellare”.
D. Alessandro, spiegaci un attimo le mosse che hanno portato la tua carriera professionale al di fuori dell’ambiente originale.
R. Come sappiamo tutti, Paolo Panerai è un imprenditore con la capacità di prevedere benissimo il futuro, muoversi molto rapidamente e arrivare prima degli altri. Aveva visto le grandi potenzialità della Maremma a metà anni Novanta e ha deciso che la produzione vitivinicola della Toscana centrale doveva essere affiancata da un’altra, complementare ma sicuramente importante, della Maremma, la quale era agli albori dell’espansione che poi si è verificata. Ha coinvolto nel progetto, che è decollato nel 1999, il suo amico, figura di grande importanza nel panorama bordolese, Eric Rothschild, proprietario di nientedimeno dello Château Lafite. E così è stata creata la joint venture Rocca di Frassinello, 70 ettari di vigneto e una cantina futuristica disegnata a Gavorrano nella provincia di Grosseto, disegnato, di nuovo nientedimeno, da Renzo Piano, amico di lunga data del dr. Panerai.
D. Che tipo di produzione è stato sviluppato lungo la costa, zona ovviamente molto diversa, più bassa e meno ripida di quella collinare fra Firenze e Siena.
R. L’impostazione è bordolese, indipendentemente dalle questioni pedoclimatiche, chiaramente non avrebbe avuto alcun senso duplicare le tipologie già presenti nel portafoglio della Castellare, sebbene a Castellina abbiamo sempre avuto piccole produzioni di Cabernet e Merlot. Cose “alternative”, ma molto limitate per quanto riguarda i numeri, in Chianti Classico abbiamo sempre puntato con grande determinazione sul sangiovese e i vari Chianti Classico prodotti non sono mai stati tagliati con uve francesi, qualcosa di cui siamo orgogliosi. L’esperienza con i vitigni della Gironda però non poteva non essere utile quando abbiamo dovuto cimentarci, nella Maremma, con produzioni su scala importante, delle orami classiche versioni toscane di cabernet e merlot. Che, sin dall’inizio, hanno riscosso grandi successi commerciali e di immagine.
D. E la decisione di investire nella Sicilia?
R. In quel caso posso benissimo dire che siamo stati veramente all’avanguardia, a parte Gianni Zonin, altro amico di Panerai, nessun imprenditore non siculo aveva pensato di investire risorse significative in un luogo dove, all’inizio del nuovo millennio, la parte più grossa delle produzioni vinicole era indirizzata al taglio e il vino in bottiglia, a parte la zona marsalese, poteva vantare poca storia e poca visibilità al di fuori dell’isola. Anche se belle aziende siciliane esistevano e avevano già iniziato il percorso qualitativo che ormai è davanti agli occhi di tutti. Ma per chi arrivava dal di fuori, le problematiche di terre e vitigni sconosciuti rappresentavano se non un ostacolo insuperabile, sicuramente un freno e l’obbligo di un periodo di riflessione prima di compiere il passo definitivo.
D. La tempistica?
R. Eravamo già in giro ai primi anni del nuovo millennio e abbiamo girato molto alla ricerca della realtà giusta, non c’è bisogno di spiegare che investire in un luogo molto distante dalla nostra base di operazioni e poco conosciuto era ben diverso dall’investire in un’altra provincia della Toscana, neanche tanto lontano dal senese. Abbiamo trovato ciò che ceravamo anche se “trovare” forse non è la parola giusta, infatti ci siamo innamorati della proprietà che è diventata Feudi del Pisciotto, non soltanto dei terreni e del microclima ma delle strutture che lì abbiamo trovato, in primis un vecchio palmento che sembravano incarnare una parte del passato dell’isola, non solo vinicola ma anche sociale e storica. Il più grande, fra l’altro, di tutta l’isola.
D. Qualche breve descrizione di questa nuova realtà produttiva, geografica e pedologica.
R. Siamo nel comune di Niscemi, tra le province di Ragusa e Caltanissetta, ma si tratta della parte nordoccidentale di Ragusa; Butera nella stessa provincia, ad esempio, altro comune viticolo importante, dista meno di 25 chilometri. Benché nella parte meridionale dell’isola, ci troviamo a soli sette chilometri del mare, una collocazione che ci assicura un’ottima ventilazione e, soprattutto, una bellissima escursione termica, di grande beneficio ai ritmi di maturazione delle uve. Il terreno, come buona parte del ragusano, è tendenzialmente sabbioso ma c’è pure un notevole scheletro, principalmente ciottolame calcareo, che aiuta ad aggiungere struttura e profumo ai vini. Il calcare, qui come altrove, è un fattore positivo nella aromaticità ed eleganza dei vini. Gli ettari vitati sono 45 e abbiamo un ventaglio importante di varietà messe a dimora,
D. Appunto, la tendenza attuale è di puntare sui vitigni autoctoni e la Feudi del Pisciotto appare in controtendenza rispetto alle ultime richieste del mercato. Sembrerebbe un problema, reale o potenziale?
R. Non penso proprio, innanzitutto non credo in certi schematismi che rischiano di diventare pure manichei, non vedo alcun motivo per cui un’azienda seria e professionale non può operare con una scelta ampia per i clienti, meglio “sia … che” di “aut aut”. Produciamo un mezzo milione di bottiglie e la Domini Castellare esporta ad una sessantina di mercati, non possiamo limitarci anche per ragioni economiche, sebbene tutto debba basarsi su studi approfonditi di terreni e microclimi per indicare i siti appropriati per ogni singola varietà. Sono stato molto influenzato dal dr. Giacomo Tachis, il quale, bisogna ricordarlo, ha dato un grande impulso alla produzione di vini di altissima qualità in Toscana, affiancando al sangiovese i vitigni internazionali. Ero molto legato a lui, per molti anni è stato il consulente qui in Sicilia all’Istituto della Vite e del Vino, ha creduto molto, anche in epoche non sospette, nella grande vocazione dell’isola. Ho ereditato anche questo e ho cercato di mettere in pratica non solo i suoi precetti tecnici, sebbene importanti, anche lo spirito in cui operava, la convinzione che un lavoro serio in vigna e in cantina non poteva che dare risultati molto gratificanti sia dal punto di vista organolettico che da quello commerciale.
D. Parliamo prima della parte viticola, c’è un ventaglio di vitigni molto nutrito, come sono disposti sui 45 ettari di vigneti attualmente in produzione.
R. Poiché, come già discusso, il terreno è relativamente omogeneo, le decisioni su dove mettere a dimora le diverse varietà sono state prese principalmente in base alle altitudini delle singole parcelle. La sistemazione, descritta sinteticamente, è ovviamente in base all’epoca della vendemmia. I due bianchi di base, l’insolia e il cattarratto, sono nella parte base della proprietà così come il merlot e cabernet, a 120 metri s.l.m. Sono stati collocati un po’ più alti, a mezza collina, ossia a 140-150 metri, il frappato, il nero d’avola, il syrah e il grillo, e qui vale la pena ricordare che quest’ultima uva si trova a Menfi, nell’unica parcella che non fa parte del blocco aziendale centrale. Il viognier è stato piantato in una posizione più alta, a 190 metri, mentre al pinot nero e allo chardonnay, due vitigni piuttosto precoci, sono stati riservati i siti più in quota di tutta l’azienda, a circa 250 metri sopra il livello del mare per poter rallentare la maturazione e vendemmiare più tardi.
La scelta del pinot nero potrebbe sembrare sorprendente, anche se il dr. Tachis ha voluto sperimentarlo in Sicilia, convinto com’era che c’erano i presupposti per un buon lavoro, ma all’epoca si ragionava in termini dell’Etna dove sono disponibili vigneti che superano i 600-700 metri. Era facile essere un po’ scettico sulle possibilità nel ragusano dove chiaramente i terreni e il microclima sono ben diversi da quelli del vulcano. Ma ho sempre amato questa uva e i suoi vini, esemplari nella loro fragranza ed eleganza, lo coltivo e vinifico nella mia piccola azienda a Castellina in Chianti e non avevo paura di accettare la sfida di produrlo anche qui a Niscemi. La presenza di uno scheletro calcareo nel suolo era incoraggiante, la varietà ha sempre dato il massimo in terreni di questo tipo. Devo dire che i risultati sinora raggiunti sono stati molto lusinghieri, il vino è stato molto apprezzato sia dalla stampa che dalla clientela, una dimostrazione che la professionalità e il lavoro vengono ripagati.
D. Gestire la vendemmia di un ventaglio di vitigni così ampia deve essere piuttosto complicato, come vi siete organizzati?
R. Ormai siamo abbastanza abituati ad amministrare le vendemmie di una certa complessità visto che abbiamo vitigni che maturano ad epoche diverse, basta controllare bene le maturazioni ed essere pronti a muoversi rapidamente quando hanno raggiunto il punto ottimale per il tipo di vino che stiamo cercando di realizzare. Abbiamo avuto parecchia pratica prima di sbarcare in Sicilia, nella Maremma c’è una differenza sostanziale fra le date di maturazione del merlot e del cabernet, che si verifica dappertutto fra l’altro. E ancora prima, a Castellare, a parte lo chardonnay, il merlot e il cabernet, persino le varie parcelle del sangiovese maturano in momenti che divergono fra di loro a seconda l’altitudine, l’esposizione e il tipo di suolo e abbiamo dovuto apprendere di intervenire puntualmente e rapidamente. La gestione della vendemmia è molto cambiata rispetto agli inizi degli anni Novanta quando ho iniziato la mia attività professionale, c’è molto più attenzione a questo momento critico e gli studi e le ricerche si sono molto focalizzati sulla questione della giusta maturazione della raccolta, nella scelta dell’epoca in cui la maturazione analitica coincide con quella fenolica o fisiologica. Per essere più specifico: la vendemmia a Niscemi normalmente inizia con lo chardonnay e il pinot nero e poi prosegue con il merlot verso il 15/20 di agosto. Il cabernet e il syrah sono raccolti durante la prima settimana di settembre, il grillo la seconda settimana di settembre e il nero d’avola la terza settimana di settembre. La vendemmia termina con il frappato nella terza e quarta settimana del mese. Come si vede, il periodo vendemmiale dura dalle sei alle sette settimane, un lasso che ci permette di organizzare le questioni logistiche senza pressioni eccessive o straordinarie. Le vendemmie veramente complicate sono quelle in cui piove sulla raccolta e questo e un problema che difficilmente si deve affrontare sull’isola.
D. Raccontaci qualcosa sulle vinificazioni, poiché in molti casi si tratta di uve nuove e molto diverse da quelle lavorate in Toscana, sia in Chianti Classico sia nella Maremma. Hanno richiesto tecniche nuove e speciali rispetto alle varietà con cui avevi già una certa conoscenza e familiarità?
R. Anche in questo caso le cose sono molto cambiate rispetto agli anni Novanta quando certi produttori e tecnici hanno spinto molto sulle estrazioni e gli affinamenti in legno alla ricerca di vini che dovevano impressionare con la forza e intensità. A noi i vini che dovessero “stupire” non ci hanno mai interessato e abbiamo sempre praticato fermentazioni e affinamenti mirati alla creazione di vini che abbinassero in modo armonioso struttura e finezza. Le vinificazioni dei vini rossi quindi sono classiche sia per quanto riguarda le temperature e le durate delle macerazioni pellicolari. Quelle dei vini bianchi invece sono un po’ diverse in quanto, pur lavorando e temperature controllate e fresche, approfittiamo delle vasche di cemento che abbiamo ereditato. Questo per evitare le correnti elettromagnetiche dei serbatoi di acciaio inossidabili che rischiano di ossidare i vini e togliere profumi, vivacità e sapidità.
D. Cinquecentomila bottiglie non sono poche, puoi descrivere come avete organizzato la proposta per poterla commercializzarla con maggiore intelligenza e successo.
R. Come in qualsiasi azienda vitivinicola di una certa dimensione (e anche spesse volte in quelle relativamente piccole, nell’albese ad esempio ci sono molti piccoli produttori che offrono insieme al Barolo o Barbaresco Barbera e Dolcetto perché, per ragioni pedoclimatiche, non possono maturare bene il pur più remunerativo Nebbiolo in tutta la proprietà), i diversi vigneti ci danno risultati organolettici di vari livelli. Abbiamo dunque una linea di vini base che punta sugli aromi e sapori varietali e su una buona bevibilità. Poi c’è una gamma intermedia in cui i vini, con maggiore polpa e consistenza, portano il nome Baglio del Sole, e in certi casi riusciamo ad arrivare a numeri piuttosto importanti: cinquanta mila pezzi nel caso dell’Inzolia e Inzolia/Catarratto, cento mila bottiglie per quanto riguarda il Nero d’Avola e il Merlot/Syrah. Non sono affinati in legno ma non sono neanche da pronta beva, la materia c’è, il Nero d’Avola esce solo dopo due anni di sosta in cantina, il Merlot/Syrah dopo tre anni. Poi abbiamo i nostri cru che consistono delle selezioni dei migliori lotti e questi vini, quasi tutti, sono invecchi nei legni piccoli, in questo caso le barrique da 225 litri. Li usiamo sin dall’inizio nella Maremma toscana e quindi abbiamo una certa esperienza nel loro impiego, mentre nel Chianti Classico preferiamo le tonneaux, più del doppio di capacità e più gentili e discreti nel loro rapporto con il vino, il sangiovese non ama forzatura, questa varietà convive bene con il rovere ma non sempre lo adora, bisogna stare molto attenti. Noi comunque abbiamo sempre avuto una mano leggera con i legni e anche in Sicilia la percentuale di fusti nuovi non supera mai il cinquanta percento. Prima il territorio e la impronta varietale, la nostra filosofia è sempre stata questa pure nei momenti in cui molti cercavano vini fortemente segnati dai legni di invecchiamento. Ora che il mercato ha girato le spalle a questa tipologia siamo stati premiati per la nostra coerenza. Accenno ad un aspetto importante di questa linea di vini di alta gamma: i singoli vini portano il nome di stilisti importanti che si sono distinti nel campo della moda: c’è il Valentino Merlot, il Versace Nero d’Avola, il Missoni Cabernet Sauvignon, il Gianfranco Ferré Gewürztraminer/Sémillon e via dicendo. Tutto concordato ovviamente con gli stilisti stessi e una percentuale del ricavo è devoluta al restauro di opere d’arte siciliane onde ridare qualcosa in cambio dei frutti che l’isola ci ha dato. Le prime opere inserite nel programma di ristrutturazione sono state una serie di stucchi dello scultore Giacomo Serpotta tra i quali l’opera chiamata “Eterno” dalla quale ha preso il nome il nostro Pinot Nero. Non siamo siciliani ma abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti dell’isola e questo programma, insieme al lavoro che il nostro investimento ha creato, è mirato a saldare, in modo continuo, questo debito.
D. Come vedi i prossimi anni ora che potete giudicare i risultati di più di una dozzina di vendemmie, assaggiare vini che, nel caso delle selezioni di maggiore qualità, hanno già un’età significativa e valutare sia le potenzialità della proprietà sia come avete lavorato?
R. Non vorrei dire che sono soddisfatto perché nel mondo del vino, come in tutti i campi professionali, si può sempre fare di più e di meglio. Ma credo di poter dire, senza esitazione alcuna, che i vini ci hanno ripagato la scelta di investire in Sicilia, la decisione di spostarci ad una terra così lontana e diversa dalla nostra base in Toscana e la fiducia sia nel nostro lavoro che nella nuova terra che abbiamo incontrato. Nel nostro settore viaggiamo molto, anche per considerazioni commerciali, ma si rimane normalmente in un ambiente piuttosto ristretto e molto ben conosciuto. Nel caso della Feudi del Pisciotto abbiamo incontrato una realtà radicalmente diversa da quella che conoscevamo, molto differente fisicamente e culturalmente, e debbo dire che l’incontro ci ha arricchito sia sul piano umano che quello tecnico-professionale. Si viaggia dopotutto per conoscere quello che non sei e non sai e da quel punto di vista i vantaggi e ricompense sono stati tanti e importanti. Se invece vogliamo mettere l’accento sui vini, non c’è alcun dubbio che, con la maggiore esperienza che abbiamo acquisito e l’età crescente dei vigneti, un bel futuro sembra assicurato.
di Daniel Thomases
Feudi del Pisciotto, cantina & Wine Relais
http://winerelaisfeudidelpisciotto.com
www.castellare.it/it/feudi-del-pisciotto