Il report sul Giappone, divulgato da Agrifoodmonitor, una iniziativa congiunta di Nomisma e CRIF, annuncia un dato più che positivo per l’export del vino italiano: +13%. Mentre la Sicilia rappresenta il 6% dell’export del vino nel paese del Sol Levante. Riportiamo di seguito il testo del documento.
Con un valore superiore ai 57 miliardi di euro, il Giappone rappresenta il quinto mercato al mondo per import di prodotti agroalimentari. L’Italia non rientra tra i principali fornitori, pesando per appena l’1,5% ma il Made in Italy alimentare è molto apprezzato e in crescita: nell’ultimo decennio, l’import di vino italiano è cresciuto ad un tasso medio annuo (Cagr) del 4%, quello di formaggi del 5,9%, l’olio d’oliva del 7,5%. Usa, Australia epaesi asiatici i principali concorrenti, ma con l’accordo di libero scambio in vigore dal 1 febbraio tra Ue e Giappone i prodotti italiani diventano più competitivi, grazie all’abbattimento dei dazi e delle barriere non tariffarie.
Con una popolazione doppia e un Pil pro-capite superiore del 10% a quello italiano, il Giappone è un mercato di estremo interesse per il nostro export di Food & Beverage. Sebbene degli oltre 57 miliardi di euro di beni agroalimentari importati nel 2018 dal paese del sol levante solamente l’1,5% era di provenienza italiana, nel corso dell’ultimo decennio il valore degli acquisti dal nostro paese sono passati da 537 a 865 milioni di euro, denotando una crescita superiore al 50%.
Ed anche i primi dati relativi al 2019 evidenziano un ulteriore crescita. Nel primo quadrimestre diquest’anno, le importazioni di prodotti agroalimentari italiani in Giappone sono cresciute di quasi il 13% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, rispetto ad una media di mercato che havisto aumentare l’import totale di food&beverage di circa il 9%. Un trend favorevole che dovrebbe trovare ulteriore spinta dall’accordo di libero scambio entrato in vigore dal 1 febbraio scorso tra ipaesi dell’Unione Europea e il Giappone e che porterà, da subito per circa il 90% delle importazioni Ue che gradualmente per il resto dei prodotti, all’azzeramento dei dazi (e delle altre barriere nontariffarie) vigenti sui prodotti agroalimentari europei. Dazi che per alcuni prodotti bandiera del Made in Italy come il vino , la pasta e i formaggi vanno dal 15% al 40%.
Sono questi alcuni dei temi approfonditi durante il IV Forum Agrifood Monitor organizzato da Nomisma e Crif tenutosi oggi presso il Palazzo di Varignana sulle colline bolognesi e che ha visto la partecipazione, tra gli altri, dell’ambasciatore Umberto Vattani, presidente della Fondazione Italia- Giappone, di Paolo De Castro, europarlamentare, Giuseppe Ambrosi, presidente di Assolatte, Daniele Salvagno, presidente di Redoro Frantoi Veneti, Gian Paolo Gavioli, direttore commerciale Caviro nonché di Koji Misawa, direttore commerciale di Elisir co. Ltd e Miciyo Yamada, giornalista ed esperta di consumi alimentari nel mercato giapponese.
“Sebbene il Giappone pesi solo per il 2% sull’export agroalimentare italiano, la rilevanza di questomercato è molto più strategica per alcuni prodotti, sia oggi che in prospettiva. Basti pensare all’olio d’oliva, dove il paese del Sol Levante incide per il 7% sull’export di questo prodotto del Made in Italye arriva al 17% nel caso degli olii esportati dal Sud Italia” dichiara Denis Pantini, Responsabiledell’Area Agroalimentare di Nomisma.
Tra tutti i mercati di destinazione dell’olio extravergine di oliva italiano, il Giappone assieme allaSvizzera rappresentano i paesi con il prezzo medio all’export più alto (rispettivamente 5,6 e 6 euro/kg) contro una media mondo pari a 5 euro/kg. Ma anche per quanto riguarda i formaggi, l’Italia presenta il posizionamento di prezzo più alto su questo mercato rispetto a tutti i diretti competitor(7,64 €/kg di prezzo medio all’import contro 3,62 euro dell’Australia o 3,97€ degli Usa). “Il posizionamento di prezzo più elevato dei nostri prodotti riflette una composizione del paniere esportato di più alta qualità che a sua volta discende da una maggior attenzione del consumatore giapponese verso il Made in Italy”, sottolinea Pantini. Non è infatti un caso se tra il 2013 e il 2018 l’export di Parmigiano Reggiano e Grana Padano in questo mercato è cresciuto a valore del 113%, quello di Gorgonzola del 109%.
Ma se vogliamo aumentare la nostra penetrazione nel mercato giapponese, oltre alla spintapropulsiva che può arrivare dall’accordo di libero scambio, dobbiamo capire bene come siamopercepiti presso il consumatore locale, qual è la reputazione dei nostri prodotti agroalimentari e soprattutto come possiamo conquistare la sua fiducia, chiave di volta per costruire rapporti consolidati di fornitura.
“La survey che abbiamo realizzato in occasione del Forum su 1.100 consumatori giapponesi haconfermato l’Italia come il paese più rappresentativo del food di qualità nel percepito dellapopolazione, surclassando sia la Francia che gli Stati Uniti, questi ultimi principali fornitori di prodotti agroalimentari nel mercato giapponese”, ha evidenziato Evita Gandini, Project Manager dell’Areaagroalimentare di Nomisma.
Non tutti i consumatori, però, si dicono pronti ad acquistare ad occhi chiusi un nostro prodotto: la stragrande maggioranza dei giapponesi, infatti, è sensibile al prezzo e razionale nelle scelte di acquisto. Si tratta dei “Tradizionalisti-cauti”, il gruppo individuato tramite la cluster analysis di Agrifood Monitor in cui ricade ben il 48% dei consumatori. Il secondo gruppo più numeroso èrappresentato dai “Millennials Sperimentatori” (36%), giovani dai 18 ai 38 anni, curiosi, aperti alle novità sono attratti dalla cultura occidentale e per questo la propensione all’acquisto di prodottiMade in Italy è più elevata della media.
“Ma il segmento più interessante per il nostro Made in Italy è rappresentato dai “Giramondo spensierati” (10% della popolazione): consumatori della Generation X (39-54 anni) con alta capacità di spesa, amano viaggiare e conoscere nuove culture. Internet, degustazioni, cooking show, abbinamento cibo-vino sono le parole chiave per conquistare questo tipo di consumatori” conclude Gandini.
“Nel settore agroalimentare come del resto in molti altri comparti della nostra economia, lo sviluppo dell’export è un processo complesso per le imprese, specie per quelle di piccola dimensione. Molto spesso per una PMI entrare in un nuovo mercato significa sostenere investimenti economici e di tempo per gestire procedure doganali, attività fieristiche, di comunicazione e distribuzione. Essendo partner di oltre 15.000 aziende in Italia, possiamo affermare che le PMI che hanno maggior successonell’export sono quelle che riescono ad accelerare la fase di ricerca degli importatori e distributori utilizzando i canali digitali ma anche riuscendo ad individuare, avvalendosi di servizi specializzati, ipotenziali partner prima ancora di investire in trasferte e attività di promozione su mercati lontani”– commenta Marco Preti, Amministratore Delegato di CRIBIS.
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