Antonio Moretti, tra Toscana e Sicilia (Prima Parte). L’intervista di Daniel Thomases

 

Antonio Moretti Cuseri, imprenditore di gran successo nel campo della confezione e della calzatura, è originario di Arezzo dove suo padre era un architetto molto stimato. Quindi, non è “del mestiere”, ma ciò non gli ha impedito di diventare una forza importante prima in Toscana, dove ha contribuito alla valorizzazione di una storica zona della sua regione natia, poi in Sicilia. Uomo curioso, dinamico e poliedrico, inquieto nel senso migliore della parola, ha fatto parte della prima ondata di imprenditori non siculi ad interessarsi dell’isola, a crederci e, più importante ancora, ad aggiungere del solido al interesse, investendoci tempo, energia e capitale.

D. Potrebbe sembrare un po’ strano che un imprenditore, già alle prese con aziende che richiedono molto tempo e attenzione, si lanci in un campo del tutto diverso, uno che richiede altrettanto impegno ed energia. Può spiegare cosa c’era dietro questa “discesa in campo”?
R. A dire il vero eravamo già nel campo in un certo senso. Avevamo un vigneto che risaliva addirittura agli anni Trenta, insieme ad altri piantati da mio padre negli anni Cinquanta. L’uva veniva venduta, però, e fra i suoi estimatori c’era Ambrogio Folonari della Ruffino, uomo che sicuramente di Sangiovese s’intendeva. A mio padre, però, architetto di professione e cacciatore nei momenti liberi, l’idea di vinificare e commercializzare in proprio non interessava e io, molto coinvolto nel mondo della moda, ero troppo preso per pensare ad una seconda attività.  Ma la gastronomia mi ha sempre interessato, non mi qualifico come gourmet, sono giudizi che spettano agli altri, ma chi mi conosce sa che la tavola ha uno spazio importante nella mia vita.

D. I primi vini erano toscani, se non vado errato, scelta logica sicuramente, può descrivere questi primi passi enoici?
R. Come già detto, le vigne e le uve già esistevano ed erano a disposizione. Così nel 1997 ho deciso di buttarmi in una nuova avventura, le mie aziende andavano bene e mi sono sempre piaciute nuove sfide, poi c’è da ricordare che la zona, la Val d’Arno di Sopra, fu scelta nel 1716 (nel famoso bando di Cosimo III de’ Medici che individuò le migliori zone viticole del suo granducato), insieme al Chianti (che sarebbe ora il cuore del Chianti Classico), Carmignano e Pomino, come una delle massime terre. Le altre tre aree sono tuttora ritenute, come sappiamo tutti, luoghi di grande pregio. Trovare bravi tecnici per aiutarmi con la impostazione agronomica e enologica non era per niente difficile in Toscana a quell’epoca e non lo è ora, anzi c’è l’imbarazzo della scelta. I presupposti, dunque, ce n’erano tutti e sono partito. Poiché il Sangiovese c’era già abbiamo piantato varietà bordolesi, Merlot, Cabernet Sauvignon e Petit Verdot, che avevano già dimostrato di adattarsi non bene ma benissimo alle condizioni pedoclimatiche della regione. I primi vini sono usciti nel 2000, il riscontro commerciale è stato molto positivo, le recensioni spesso ancora, di più, a volte addirittura lusinghiere e così la mia seconda carriera è cominciata. E non ho mai guardato indietro, questo è un campo che, una volta che uno entra e si appassiona, diventa quasi una malattia, si cerca sempre come far di più e di meglio, migliorare diventa una vera e propria ossessione. E questo perché le variabili della qualità sono talmente tante, i fattori in gioco così incalcolabili poiché non esistono – fortunatamente – formule, dunque bisogna rimettersi in gioco ogni anno. Ma senza questo fuoco sacro non si va da nessuna parte.

D. Concretamente, da che parte è andato dopo questa partenza sprint?
R. Verso la Maremma toscana, che conosco piuttosto bene, mi piace molto il mare e ho una casa di vacanza a Punta Ala nel grossetano, una località balneare ben conosciuta sul promontorio omonima. A dire il vero, era una zona già conosciuta, la famiglia faceva le sue vacanze su questa costa quando ero ancora ragazzo. I primi vini di un certo interesse della DOC Morellino di Scansano avevano cominciato ad apparire, l’appellazione iniziò a suscitare un certo interesse e per un imprenditore arrivare dopo gli altri è impensabile. Per me, inconcepibile. Quindi nel 1999 ho acquistato terra vergine nel comune di Magliano in Toscana, per me uno dei posti di maggiore vocazione, e abbiamo cominciato a produrre una breve linea di vini maremmani, Sangiovese e Vermentino per ricalcare la tradizione e il territorio, Cabernet Sauvignon, che ha un po’ spinto la rinascita della Maremma come zona vinicola nel dopoguerra. Poi nel 2005 ho avuto l’occasione di comprare un vigneto a Castagneto Carducci che mi ha dato la possibilità di produrre un Bolgheri rosso. Una storia piuttosto interessante, una produttrice californiana, Delia Viader, i cui vini – secondo ciò che mi dicono – sono anche molto buoni, aveva piantato la vigna, un impianto molto bello, più di 7500 ceppi per ettaro, e poi, prima di produrre i primi vini, ha cambiato idea oppure è stata costretta da nuove circostanze di abbandonare il progetto, non ho mai conosciuto i dettagli. Sono solo 5,5 ettari ma, nelle buone annate, possiamo arrivare sino a 30.000 bottiglie di una qualità che il mercato ha accolto molto bene. È interessante assaggiare il vino, Orma, in confronto con il nostro Oreno valdarnese, più o meno le stesse uve, gli stessi concetti, tecniche e pratiche sia in vigna che in cantina, ma i due vini sono assolutamente diversi. Una vera e incontestabile dimostrazione di cosa vuol dire terroir, noi investiamo tutti i nostri sforzi e conoscenze ma alla fine è la Natura, pur lavorando bene, che predomina.

D. Con tutti questi progetti o già operativi o in rampa di lancio, per quale motivo ha deciso di allargare gli orizzonti e venire a produrre in un posto piuttosto distante dal luogo di nascita?
R. Viaggiare francamente non è mai stato un problema per me, al contrario è sempre stato uno stimolo, mi sono sempre mosso molto nelle altre attività imprenditoriali in cui sono stato impegnato sia per curare la produzione sia per seguire e spingere gli aspetti commerciali. Non mi hanno ancora dato la patente di pilota ma poco ci manca, sono molto a casa negli aeroporti! La distanza fra la Toscana e la Sicilia non mi ha spaventato, al contrario mi ha offerto la possibilità di uscire dal tran tran quotidiano, vedere luoghi diversi, incontrare nuove persone, fare altre esperienze.

D. Quando è iniziato il nuovo progetto siciliano e per quale motivo ha deciso di scegliere questa isola anziché le tante altre zone d’Italia? I vini, all’epoca, dopotutto non avevano per niente il prestigio e allure di oggi.
R. Mi sembrava più interessante come sfida misurarmi con una nuova realtà piuttosto che in zone o con una lunga storia alle spalle o dove tanti altri già operavano bene. E’ sempre uno svantaggio commerciale tuttavia dover crearsi uno spazio sul mercato e andare testa a testa con concorrenti meglio conosciuti, magari con una solida rete di distribuzione ed etichette con una certa rinomanza. Non posso dire di avere avuto una conoscenza esauriente della Sicilia e tanto meno dei suoi vini, ma d’estate vado in barca, avevo visitato Marzamemi e dintorni, la vocazione agricola sembrava garantita dalla bontà dai famosi pomodorini e meloni di Pachino e la bellezza architettonica di posti come Noto, Modica e Ragusa Ibla sicuramente non ha bisogno di alcuna attestazione da parte mia. Sapevo che in passato questa fu una zona rinomata per la qualità del suo Nero d’Avola e che una volta la viticoltura fu molto estesa e florida, chiaro segno di vocazione. Già all’epoca la gastronomia era di notevole livello e in anni recenti si è confermata in modo veramente egregio, ci sono ristoranti che concorrono benissimo con i migliori d’Italia. Tutta una serie di motivi che mi attiravano moltissimo.

D. Il progetto e gli investimenti sono partiti dunque quando?
R. Il progetto nel 2000 quando ho acquistato i primi “tumuli” (misura sicula di 1744 metri quadri ossia, suppergiù un sesto di un ettaro); ma ho incontrato quelli che si potrebbero chiamare “inconvenienti” in corso di attuazione del programma, almeno per quanto riguarda la tabella di marcia. La Toscana è una regione di tenute piuttosto grandi e non ero preparato per il frazionamento della proprietà fondiaria che ho trovato in Sicilia orientale, per mettere insieme tutti i tasselli che costituiscono l’attuale azienda, Feudo Maccari, ho dovuto comprare la terra di cinquanta proprietari diversi; certo, essere notaio in Sicilia non è il peggiore mestiere che uno possa esercitare! Ma chi la dura la vince e alla fine mi sono trovato con una tenuta di 170 ettari, 60 dei quali vitati dislocati sia a Noto che a Pachino. Ci sono ovviamente differenze significative di terreni, esposizioni e altitudini che ritengo un gran vantaggio in quanto ci permette di giocare con un ventaglio notevole di lotti diversi, sia per quanto riguarda la personalità che la qualità. Una maggiore complessità, in poche parole, e cerchiamo di rispettarla e valorizzarla, a beneficio della nostra clientela, in tutti i vini che produciamo.

Può dirci qualcosa sui vigneti che ha trovato e anche quelli che ha piantato?
R. Volentieri, la zona, come del resto una buona parte del vigneto Sicilia, adoperava storicamente un unico tipo di allevamento, l’alberello. Noi siamo rimasti assolutamente fedeli a questa impostazione, tutti e sessanta ettari vitati impiegano questo sistema e ritengo questa scelta molto di più di un semplice omaggio al passato e alla tradizione, benché non sia mai sbagliato questo tipo di rispetto. Mi pare piuttosto un atto dovuto, non possiamo pensare di essere così brillanti da poter inventare tutto ex nuovo, i nostri antenati non erano tutti fessi. Bisogna ricordare poi che la viticoltura sistematica ha quasi tre millenni di storia in Sicilia e non sembra necessario sottolineare che in passato non esistevano né il filo di ferro né i pali di sostengo, tutti elementi indispensabili per una controspalliera. Nei secoli e millenni l’alberello si è dimostrato di gran lunga il sistema più adatto al clima mediterraneo, ai suoi picchi di temperatura e lunghi periodi di siccità, la forma della chioma protegge le uve dagli eccessi di insolazione mentre l’ombra creata sembra aiutare la conservazione delle risorse idriche nel suolo. Non ho pensato neanche un attimo ad un sistema di irrigazione, lasciamo quella roba là ai californiani e australiani, fanno vino in aree senza storia, lì l’irrigazione è d’obbligo. Il nostro agronomo, il dr. Andrea Paoletti, che ritengo un grandissimo professionista, uno che ha lavorato dappertutto nel mondo, crede fermamente nell’alberello, produce un po’ di vino a casa sua a Firenze e mi dice che i filari ad alberello gli danno sempre un’uva superiore a quelli a cordone speronato. Per quanto riguarda invece le varietà scelte per la produzione, va da sé che ho puntato sui vitigni siculi, venire in Sicilia dalla toscana per fare altri vini “internazionali” non avrebbe avuto alcun senso, anche dal punto di vista del marketing. Ci sono indubbiamente buoni Merlot e ottimi Cabernet prodotti in vari posti della Sicilia, ma io ce li avevo già in Toscana e, indipendentemente dalle considerazioni commerciali, duplicare una proposta già esistente avrebbe solo creato confusione. Ho deciso di provare invece il Syrah che, se “internazionale” in un certo senso, era molto meno diffuso rispetto alle uve della Gironda. Ci divertiamo con la varietà, come in ogni aspetto del nostro lavoro cerchiamo di dare la massima attenzione a tutto, ma stiamo parlando di ottomila bottiglie all’anno. Ritengo il Syrah, fra i vitigni francesi più noti, il più mediterraneo di tutti, viene piantato al di là delle Alpi in aree tendenzialmente calde, mediterranee; al di sopra di Lione, ad esempio, non si trova. Secondo me viene molto bene in Sicilia. Più mediterraneo della parte sudorientale della provincia di Siracusa proprio non c’è, siamo alle latitudini di Tunisi.

D. Ha parlato di vitigni autoctoni, può essere più preciso?
R. Sì, siamo in una delle storiche zone del Nero d’Avola; mi dicono che solo nell’area di Noto e Pachino c’erano, in tempi anche recenti, tre mila ettari di vigneti che producevano quasi esclusivamente Nero d’Avola. I pomodorini di Pachino, infatti, sono diventati famosi perché la poca rimuneratività dell’uva ha spinto molti vignaioli ad estirpare gli impianti e buttarsi su altre colture. Se io e i miei colleghi abbiamo contribuito al rinascimento della viticoltura locale, quella che abbiamo visto negli ultimi quindici anni, devo dire che sono molto felice. Degli impianti abbiamo già parlato; per quanto concerne la materia genetica, abbiamo avuto la fortuna di trovare una vecchia vigna, chiaramente ad alberello. Il cordone speronato che abbiamo in Toscana non esisteva proprio in Sicilia quattro decenni fa, e sono quasi tentato dalla voglia di dire “meno male”. Le marze che abbiamo adoperato ci hanno dato una qualità eccellente. Proprio questo vigneto fornisce l’uva per la nostra selezione di Nero d’Avola: 60 mila bottiglie nelle annate in cui la stagione è dalla nostra parte. Facciamo affinare in rovere questo vino ma, così come in Toscana con il nostro Sangiovese, il regime dei legni è stato modificato, stiamo impiegando formati più grandi alla ricerca di una maggiore armonia ed eleganza, più frutto e più territorio.

D. Noto e Pachino sono, storicamente, terra di uva rossa, avete rispettato anche questa tradizione?
R. Non del tutto, la tradizione è e deve continuare ad essere la stella polare, ma non deve necessariamente essere seguita in modo pedissequo. Non abbiamo alcuna voglia di buttare all’aria tutto ciò che esisteva prima ma abbiamo la pretesa, nel nostro piccolo, di poter aggiungere qualcosa pure noi. Disse il filosofo russo Rozanof: “la tradizione deve essere pia, ma non pazza”, noi proseguiamo nel solco di questo pensiero. Quindi abbiamo piantato, ovviamente un vitigno siciliano, il Grillo, che ci ha dato un vino bianco che non solo ci piace molto, ma è stato accolto molto bene nei diversi mercati in cui operiamo. Bella uva, mi ha incantato la sua fragranza e ampiezza, ormai siamo arrivati ad una produzione annuale di 65 mila bottiglie. Poi, un cenno ad un’importante tradizione siracusana. Facciamo un vino da dessert, un passito a base di Moscato appassito, poche bottiglie. Il vino dolce purtroppo non tira in questo momento, ma questa nostra proposta ci soddisfa come omaggio ad un passato glorioso, una volta il Moscato di Siracusa aveva una grande fama.

(continua, la Seconda Parte il 21 gennaio)

di Daniel Thomases

 

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