(Lettera aperta a tutti i vignaioli)
Cari Vignaioli,
è da una mortificazione profonda dell’animo che vi scrivo, perché quello che stiamo subendo, inermi, è grave e pesante. Questi sono giorni speciali, che si raccolgono intorno a Natale, e sono anche l’occasione per diverse riflessioni. Anche sul nostro lavoro, sulle forze positive e negative che lo animano. Tra le forze negative vi è anche l’oppressione burocratica che ci assedia da tempo e verso la quale poco e male abbiamo reagito se non nel privato o con denunce occasionali. Credo che dovremmo tentare di opporci a questa oppressione. L’ultima in uscita è stato il varo dei registri “dematerializzati”, il passaggio dai registri cartacei, che regolano già pesantemente la vita di noi che produciamo vino, alla loro trasformazione informatica.
“Dematerializzati”: ironia dei nomi, perché mai materia fu più greve, ai nostri animi di lavoratori della terra, che altra materia conosciamo, realmente ben più pesante per la fatica che ci chiede ma spiritualmente incomparabilmente più leggera. E dunque l’adattamento, l’ennesimo adattamento che subiremo imparando ad usare il nuovo registro unico, sarà un ulteriore aggravio allo spirito col quale affrontiamo quotidianamente il nostro lavoro. La cosa inquietante, che questo provvedimento rivela, riguarda non solo i complicati meccanismi coi quali è costruito, ma la mentalità che l’ha concepito e ne ha voluto l’attuazione: è questa mentalità la cosa più temibile che abbiamo di fronte. Il pensiero del tempo che dovremo dedicare per ottemperare agli obblighi legati a questi castelli informatici, inutilissimi, è cosa che genera sgomento. Inutili perché chi produce, e ce ne rendiamo conto noi tutti che viviamo all’interno di questo lavoro, potrebbe essere facilmente controllato semplicemente con la richiesta di una denuncia di produzione (carico) e i documenti di vendita (scarico), e null’altro servirebbe, così che potremmo dedicarci al nostro vero lavoro che è in vigna. Forse chi ha concepito questi gravami a noi dedicati non si è reso conto di cosa stava chiedendo, non ha misurato la distanza di quel modo di concepire, dalla realtà del lavoro, e il risultato non potrà che essere un grande danno.
Penso ai numerosi vignaioli che non hanno confidenza con l’informatica, costretti a ricorrere a consulenze e a prestazioni a pagamento, perché incapaci di affrontare queste complicate procedure; a coloro che consumeranno le loro sere aggiungendo fatica alla giornata che poteva essere considerata conclusa, vissute nel timore delle multe pesantissime, o comunque nello scrupolo ansioso di fare la cosa giusta. Tutte situazioni così in contrasto col reale contesto del nostro lavoro, figlie di una mentalità alla ricerca di un’esattezza così poco accordabile col lavoro che dedichiamo al vino, che può passare solo attraverso una nostra sofferenza, perché la nostra precisione e puntualità si è sempre misurata e continua a misurarsi in un incontro del tutto diverso col vino e con la sua delicata vita, e troppo ostica risulta questa innaturale traduzione in descrizioni burocratiche. Il nostro meraviglioso lavoro rischia di essere una volta di più avvilito e mortificato da queste esigenze che il potere politico-burocratico esige da noi. E chi saranno a pagare di più, tra noi tutti, se non i migliori? Quegli autentici vignaioli che hanno passato la vita in contatto con la natura e le sue misteriose leggi, cercando di avvicinare quei misteri, custoditi dalla natura, dai quali scaturiscono le nostre uve e poi, ulteriore miracolo misterioso, il nostro vino. Tutto questo non sembra interessare chi ha deciso di programmare la nostra vita riempendola di regole pesanti, di rubare al nostro vero lavoro tante ore per soddisfare le oscure ambizioni del tutto controllare attraverso un clic, per inquadrare il frutto del nostro lavoro così strettamente, presumendo forse che tra i vignaioli si annidino terribili frodi, mentre di fronte hanno nella maggior parte dei casi persone serie ed appassionate. Questo è un peccato gravissimo contro la vita e noi ci siamo abituati a questo adattamento passivo, pensando ogni volta che sarebbe stata l’ultima richiesta, mentre l’onnivora sete dei burocrati non sembra proprio placarsi, anzi sembra eccitarsi sempre più in un delirio di onnipotenza del controllo. Lo vediamo su tutti i fronti degli inquadramenti di cui siamo oggetto. Il tutto col beneplacito di chi avrebbe dovuto difendere la nostra vita e il nostro lavoro, si chiamino associazioni di categoria, sindacati o altro ancora, di antica o recente costituzione.
Nessuna voce si è levata per dire in modo chiaro che quello che ci stavano chiedendo passo dopo passo, misura dopo misura, regolamento dopo regolamento, inquadramento dopo inquadramento, era sproporzionato, inutile, pericoloso per tutti gli scoraggiamenti che avrebbe prodotto, nocivo a tutta la collettività per la disaffezione e l’abbandono che avrebbe procurato. Io credo e sento che questa mortificazione, alla quale ci siamo fin qui abituati, debba trasformarsi in una resistenza. Lo dobbiamo alla vita, della quale siamo testimoni col nostro lavoro; lo dobbiamo ai nostri figli, che debbono ereditare un mondo del lavoro non fatto di incubi burocratici; lo dobbiamo alla dignità del nostro lavoro di agricoltori; lo dobbiamo a tutti gli uomini che non vogliono vedere la loro e l’altrui vita appiattita in un mondo impoverito da una mentalità burocratica che non sa riconoscere la vera natura dei lavori, la loro autentica sostanza, e tenta di ridurli alla propria aridità contabile e alla propria volontà di controllo. Lo dobbiamo a noi tutti, che respiriamo l’aria dei campi, che conosciamo albe e tramonti, che ci nutrono, questi sì, verso una speranza anche quando le cose si fanno difficili, quando sperimentiamo la durezza della natura che non vuole assecondare le nostre aspettative. Lo dobbiamo ai palpiti della terra, alla misteriosa vita che nasconde e che dobbiamo custodire. Vi prego, troviamo il modo non violento per reagire, per opporci a questa china che sembra inesorabile, ma che ci appare così solo perché le abbiamo permesso di impossessarsi di noi, di insinuarsi passo dopo passo nella nostra vita. Dobbiamo opporci proprio con lo spirito dei costruttori di pace, perché la pace è la condizione delle cose giuste, dei rapporti giusti. Ed è una pace malsana quella dove tanti uomini sono gravati da richieste insensate, che non corrispondono ad alcuna esigenza che non sia quella di un sistema di controllo sfuggito alla sensatezza, chiuso nell’autogiustificazione di se stesso e delle proprie concezioni, disgiunto dalla realtà che pretende di controllare. Ma possiamo scegliere di reagire, possiamo cercare di rispondere. Dobbiamo dire agli uomini che architettano i nostri controlli che la vita del nostro lavoro non si concilia con questi schemi informatici, non è riducibile a questi schemi informatici: e che questi hanno senso di essere solo nel momento che ci aiutano a migliorare e a snellire il lavoro, quando li scegliamo perché ci aiutano. Che la trasparenza del nostro lavoro, che può e deve essere verificata attraverso i controlli, può essere raggiunta in modo molto semplice, certificando il carico e lo scarico di ciò che abbiamo prodotto e poi trasformato, nella maniera più snella possibile, e che tutto ciò che si aggiunge è una colpa contro la dignità umana e contro la sua autentica crescita.
Queste costruzioni informatiche dovranno trasformarsi, dovranno essere concepite con semplicità ed essenzialità, e solo allora si concilieranno col lavoro agricolo, solo allora contribuiranno a farlo crescere; solo allora permetteranno che questo venga continuato dai suoi uomini migliori, che non sono uomini desiderosi di attaccarsi ad un personal computer per giochicchiarvi sopra, ma sono uomini avvezzi alla brezza della campagna e all’umidità della cantina. Non so come questa resistenza vada organizzata, ma, e lo dico prima di tutto a me stesso, non dobbiamo adattarci così passivamente. Altre volte il mondo del vino è stato promotore di cambiamenti. Dobbiamo trovare l’unità pacifica di questi intenti di resistenza. Dobbiamo trovare i modi per farlo, coinvolgendo tutte le persone responsabili e coscienti disposte a confrontarsi, non per ottenere qualche mediocre compromesso, ma per testimoniare lo scandalo di tutti gli adempimenti inutili, di tutti gli adempimenti che mortificano le intenzioni di chi sia desideroso di intraprendere il mestiere agricolo, di tutti gli adempimenti in contrasto con la creatività del nostro lavoro. Non si può chiamare progresso quello che avvilisce e appesantisce l’uomo. Il nostro mestiere è prezioso per tutti e va incoraggiato e non mortificato. Va permesso ai giovani che intendo intraprendere un’attività agricola di non trovarsi di fronte a un calvario di adempimenti, a un castello temibile di doveri e di fatiche burocratiche. Non può essere che la vita lavorativa venga così ostacolata. Non fa onore a noi stessi adattarsi e abituarsi a ciò che il profondo di noi stessi respinge, non per pigrizia, ma riconoscendone una valenza negativa. Il nostro tempo e il mondo che abbiamo costruito ha visto grandi risultati tecnologici, ma vive altresì assillato da tanti e tanti problemi, per il presente ma ancor più per il futuro: questa condizione non è davvero quella che possa permettersi di rendere ostico l’avvicinarsi al più radicato nella vita di tutti i lavori, quello agricolo, soprattutto quello vissuto nella piccola dimensione famigliare. Non rinunciamo a difendere la vita che abbiamo imparato in campagna e nell’oscura calma creativa delle nostre cantine, da questi tristi e inutili obblighi che non possono che mortificarla.
30 Dicembre 2016
Andrea Kihlgren, azienda Santa Caterina
Sarzana (Sp)
Liguria
Riferimenti: Slowine, www.slowfood.it/slowine/la-burocrazia-uccide-nostro-lavoro-lettera-aperta-un-vignaiolo-tutti-suoi-colleghi