DiVinCinema 2016, cinema & vino con la Strada del Vino Terre Sicane. Il programma

 

Settima edizione di DiVinCinema, la rassegna di cinema pensata insieme al vino. Ogni venerdì, dal 15 luglio al 12 agosto, tra Sambuca di Sicilia, Menfi e Montevago, verrà proiettato un film presso una cantina vitivinicola. La rassegna cinematografica è promossa dalla Strada del vino delle Terre Sicane.

La rassegna propone la visione di film in abbinamento alla degustazione di vini e prodotti gastronomici. L’iniziativa è volta a diffondere la cultura del bere bene e mira a coniugare enogastronomia, cultura e intrattenimento.13615498_1311724415522314_6808550044650280249_n

La formula vincente di DiVinCinema, progetto nato nel 2010 – dice Marilena Barbera, Presidente della Strada del Vino Terre Sicane – è una miscellanea di gusto, esperienze ed autentiche emozioni”.

L’atmosfera accogliente della proiezione cinematografica e la degustazione di un buon calice di vino, accompagnata da prodotti tipici danno vita a serate uniche, ricche di poesia e convivialità, in cui la campagna fa da cornice, stimolando i sensi e il contatto con la natura.

Ecco i film della rassegna:

15 luglio – Cantina Di Giovanna / Perfetti sconosciuti
22 luglio – Cantina Planeta / Ulmo Brooklyn
29 luglio – Cantina Settesoli / The danish girl
05 agosto – Cantina Cellaro / Veloce come il vento
12 agosto – Cantina La Chiusa / Gli utlimi saranno gli ultimi


 

Gli Ultimi saranno ultimi – 12 agosto, Cantina La Chiusa
(di Paola Casella, su MyMovies.it) Luciana vive ad Anguillara, lavora in fabbrica ed è sposata con Stefano, disoccupato cronico pieno di idee multimilionarie ma refrattario all’idea di “stare sotto padrone”. Da tempo desiderano un figlio che non arriva, ma quando il loro sogno si avvera il datore di lavoro di Luciana si rifiuta di rinnovarle il contratto “a tempo determinato”, vista la gravidanza in corso. Antonio è un poliziotto veneto trasferito ad Anguillara con disonore e accolto con scherno dai colleghi. Appena arrivato si confronta con le peculiarità del paese, a cominciare dai ripetitori che trasmettono la messa dai citofoni e dai lavandini di casa (insieme a una serie di radiazioni pericolose). Il suo è un percorso di espiazione costellato dalle punizioni del capo e le mortificazioni dei compagni di pattuglia.  Fin dalla descrizione dei due protagonisti paralleli, Gli ultimi saranno ultimi mostra come la sua storia potrebbe sconfinare ogni momento in farsa o in tragedia, e infatti la narrazione cammina in bilico su questo crinale, in quella tradizione del cinema italiano che attinge alla realtà e al carattere nazionale per declinarsi in tutte le sue sfumature tragicomiche. Scritto e diretto da Massimiliano Bruno, Gli ultimi saranno ultimi nasce come pièce teatrale ma nella trasposizione cinematografica attinge alla luminosità morbida e clemente della provincia laziale, allargando lo spazio a molti caratteri riconoscibili: gli amici, i vicini, la single “collezionista”, la poliziotta goffa e sfortunata, la guardia giurata affettuosa (e quella letargica), l’apprendista ambiziosa (più per disperazione che per vocazione). Ognuno brilla grazie a una scrittura precisa e credibile, e all’interpretazione esatta ed empatica di un cast di ottimi caratteristi: la deliziosa poliziotta Maria Di Biase, gli amici Silvia Salvatori, Emanuela Fanelli, Giorgio Caputo e Marco Giuliani. Bravissimi anche Diego Ribon nei panni di un sindacalista da prendere a ceffoni, Duccio Camerini padrone di casa e Francesco Acquaroli padrone delle ferriere, Ariella Reggio mamma di Antonio.
Ovviamente la parte del leone va a Paola Cortellesi (Luciana), perfetta come sempre: tenera, stressata, commovente, buffa, patetica. Le tiene testa uno straordinario Alessandro Gassmann (il marito Stefano) che dà prova inconfutabile, con apparente leggerezza, della sua raggiunta maturità d’attore, e della sua capacità tutta italica (parliamo di commedia all’italiana) di essere insieme gaglioffo e gagliardo. Fabrizio Bentivoglio fa più fatica a risultare credibile nella sua volontà programmatica di calarsi nei gesti e nell’accento del poliziotto Antonio, ma rende bene la gravità del personaggio. Accanto a loro Stefano Fresi e Ilaria Spada lasciano come al solito il segno, e Irma Carolina di Monte interpreta con precisione forse il personaggio più originale del film. Vale la pena dettagliare il lavoro degli attori perché la regia è completamente al loro servizio, ne segue i movimenti interiori ed esteriori, resta loro addosso: nella scena della conversazione al ristorante la cinepresa pare un bambino che cerca di non perdersi neppure una parola, neppure una smorfia di quello che dicono i grandi.  Gli ultimi saranno ultimi racconta con strazio e partecipazione, ma anche con umorismo e levità, le vicende di un gruppo di italiani del presente stretti fra la crisi e la necessità di negarla, strozzati dalla paura e la vergogna, sempre più limitati nelle loro possibilità e nei loro margini di scelta. Persone che non riescono più a vedere ciò che sta davanti ai loro occhi, che prendono derive deleterie senza nemmeno rendersene conto, che vedono la loro dignità costantemente sotto attacco e tentano di difenderla come possono. Persone stanche, che smettono di essere ragionevoli e sbroccano o, peggio ancora, vanno lentamente alla deriva. Bruni le racconta con una delicatezza che si tiene al di qua della melensaggine e del melodramma (anche se alcune sottolineature musicali sono davvero esagerate) e gradualmente ci leva la pelle, lasciandoci scoperti, nudi davanti a ciò che siamo diventati, ognuno macchiandosi di piccole e grandi nefandezze. E racconta senza peli sulla lingua alcune grandi verità contemporanee, prima fra tutte quella che “senza il lavoro si puzza”, e che homo sine pecunia est imago mortis: laddove homo sta per “essere umano”, maschio e femmina.


 


Veloce come il Vento – 
5 agosto – Cantina Cellaro

(Recensione su myMovies.it) Giulia De Martino vive in una cascina nella campagna dell’Emilia Romagna con il fratellino Nico. Sua madre se ne è andata (più volte) di casa, e suo fratello maggiore Loris, una leggenda dell’automobilismo da rally, è diventato un “tossico di merda” parcheggiato in una roulotte. Quando anche il padre di Giulia, che aveva scommesso su di lei come futura campionessa di Gran Turismo usando come collaterale la cascina, la lascia sola, Giulia si trova a gestire lo sfratto incipiente, il fratellino spaesato e il fratellone avido dell’eredità paterna. Ma la vera eredità dei De Martino è quella benzina che scorre loro nelle vene insieme al sangue e quel talento di famiglia, ostinato e rabbioso, per le quattro ruote.
Dopo due regie da rampollo di buona famiglia – Un gioco da ragazze e Gli sfiorati – Matteo Rovere finalmente esce dai Parioli e riscopre le sue radici romagnole, con tanto di unghie sporche di terra e imprecazioni in quel dialetto sanguigno che domina il mondo del motor sport italiano. Con intelligenza, sensibilità e gusto Rovere si butta a rotta di collo lungo un tracciato pieno di curve pericolose tenendo ben saldo il volante, con il sostegno di una bella sceneggiatura scritta a sei mani, oltre che da lui, da Filippo Gravino e Francesca Manieri. Lo spunto è una storia vera raccontata al regista da un meccanico scomparso l’anno scorso, cui sul grande schermo dà il volto segnato e la recitazione misurata l’ottimo Paolo Graziosi. Lo stile è quello del film di genere, ma più che al motor movie stile Rush Rovere attinge all’underdog movie di matrice atletica alla Rocky o alla Flashdance, aggiungendo un pizzico della follia da race movie farsesco alla Quei temerari sulle macchine volanti. Volano davvero, le auto da corsa di Veloce come il vento, così come sono davvero matti e disperatissimi i loro piloti (il che ispira la battuta migliore del film), giovani o vecchi, maschi o femmine. Perché uno dei (tanti) pregi del film di Rovere è che racconta (senza mai sottolinearlo con facile retorica e ancor più facile piaggeria nei confronti del pubblico femminile) un mondo dove le pari opportunità sono reali: Giulia gareggia da sempre insieme ai piloti uomini, e tutto ciò che conta è l’asfalto che brucia e la grinta che sa dimostrare al volante. Matilda De Angelis, al suo esodio cinematografico, è perfetta nei panni di una 17enne che ha il motore nel dna ma anche responsabilità adulte e piedi ben piantati per terra. Il suo sguardo sotto il casco mescola terrore e adrenalina, il suo corpo acerbo comunica fragilità e determinazione. La sua recitazione sobria e autentica, che ben si sposa con quella di Grazioli e del piccolo Giulio Pugnaghi nei panni di Nico, fa da contraltare e da contenitore a quella sopra le righe di Stefano Accorsi, che sulle prime pare gigioneria e invece conquista gradualmente dignità e carisma, per diventare la brillante caratterizzazione di un uomo in equilibrio su un crinale scosceso, un perdente glorioso degno di quell’universo epico e spaccone che è il mondo delle corse, siano esse su circuito di Formula Uno o su strada sterrata. Passato il mezzo del cammin della sua vita Accorsi sciacqua saggiamente i panni nel Po e non solo rispolvera il suo accento (pre Maxibon) ma acquisisce anche una postura da contadino della Bassa, e attinge alla fame di vita del Vasco prima maniera e alla poesia anarchica del Liga (Antonio, più che Luciano). Le riprese di gara sono convincenti e si lasciano seguire anche da chi non le conosce né le apprezza, e non privilegiano mai l’abilità tecnologica rispetto alla dimensione umanistica del racconto. In questo senso Veloce come il vento è più analogico che digitale, e gli effetti speciali sono vintage come il codice d’onore di Loris De Martino. Il film di Rovere fa parte di quella rinascita del cinema italiano che affronta il genere per trascenderlo, e affonda le radici nei localismi dopo aver appreso a fondo la lezione (cinematografica) della globalizzazione. Soprattutto, fa qualcosa di grande: mostra alle giovanissime generazioni, per bocca di un quarantenne che si è bruciato e che ha distrutto l’automobile con cui correva vent’anni fa (una datazione non casuale), che si debba, e si possa, correre dei rischi, che si possa, e si debba, aggiustare ciò che abbiamo (o è stato) fatto a pezzi, che è lecito farsi (del) male ma anche (auto)ripararsi. Dimostra che aver paura di tagliarle il cordolo (o il cordone ombelicale) allontana dal traguardo, e che le ragazze non sono condannate ad essere colibrì dalle ali azzurre, ma possono diventare contendenti.

 


 

 

The Danish Girl

The Danish Girl è un film del 2015 diretto da Tom Hooper, adattamento del romanzo La danese (The Danish Girl), scritto nel 2000 da David Ebershoff. Il film ha come protagonista Eddie Redmayne nei panni di Lili Elbe, una delle prime persone a essere identificata come transessuale e la prima a essersi sottoposta a un intervento chirurgico di riassegnazione sessuale, e Alicia Vikander nei panni di Gerda Wegener; fanno inoltre parte del cast Matthias Schoenaerts, Ben Whishaw, Amber Heard e Sebastian Koch. Il film è stato presentato in concorso alla 72/a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il 5 settembre 2015, è stato distribuito in versione limitata nelle sale statunitensi il 27 novembre 2015; in Italia è uscito il 18 febbraio 2016, con un incasso in Italia di oltre 2.000.000 di euro.

Trama
Nella Copenaghen degli anni venti la ritrattista Gerda Wegener è sposata con il pittore paesaggista Einar Wegener; i due vivono con alcune tensioni la disparità tra la notevole fama di lui e quella meno significativa di lei; inoltre non riescono a concepire un bambino nonostante numerosi tentativi. Ciò nonostante entrambi si amano e sono complici l’uno dell’altra. Un giorno Gerda chiede a Einar di posare per lei al posto di una modella donna, la ballerina Ulla, impegnata nelle prove di uno spettacolo; quasi per gioco l’uomo assume l’identità di Lili Elbe, il suo alter ego femminile. Successivamente Gerda gli chiede di accompagnarla a una festa per artisti indetta proprio da Ulla nei panni di Lili; i due sposi studiano quindi il travestimento adatto per Einar, che arriva alla festa completamente vestito, truccato e con una parrucca da donna. Inizialmente Einar è molto imbarazzato dalla sua nuova identità; alla festa però conosce Henrik, un pittore omosessuale che, pur sapendo chi lui sia in realtà, finge di essere attratto da Lili per sedurlo. Gradualmente Einar comincia a prendere coscienza del fatto di essersi sempre riconosciuto nel sesso opposto, nonostante abbia sempre tentato di nasconderlo a sé stesso e alla società; comincia perciò a lasciarsi sempre più spesso dietro i panni maschili per essere Lili. Ciò ha ovviamente ripercussioni sul matrimonio con Gerda, che comincia a percepire suo marito molto distante da sé; tuttavia non abbandona mai il suo fianco, e comincia a dipingere dei ritratti usando Lili come modella. Einar, combattuto tra la lotta per la sua identità e le implicazioni morali che ciò comporta, consulta un medico che lo sottopone a un doloroso intervento di castrazione chimica; ciò non fa che incrementare il suo desiderio di essere Lili. Intanto i ritratti di Lili fatti da Gerda hanno successo, e i due si trasferiscono a Parigi. Gerda nutre la speranza che la nuova vita parigina possa in qualche modo ridarle suo marito, ma accade il contrario: Einar diventa sempre più insofferente alla sua vita maschile. In un estremo tentativo di aiutarlo, Gerda ricontatta Hans, un impresario d’arte di cui in passato Einar era stato innamorato; lui gli si presenta nei panni di Lili, ma si accorge di non essere ricambiato, Gerda, dal canto suo, rimane sedotta da Hans ma è fermamente decisa a non abbandonare quello che lei ritiene ancora suo marito. Man mano che il desiderio di Einar si fa sempre più forte, i due consultano diversi psicologi, ma nessuno sembra considerare l’uomo più che un pervertito e in taluni casi schizofrenico. La loro ultima speranza risiede nel dottor Warnekros, che da tempo studia e progetta un intervento di riassegnazione sessuale: quando spiega a Einar di cosa si tratta, l’uomo decide di offrirsi come cavia nonostante si tratti di una procedura sperimentale, mai osata prima e potenzialmente molto pericolosa. Einar si sottopone come prima cosa a un intervento di orchiectomia, che sembra andar bene; per un breve periodo Lili e Gerda convivono da amiche sotto lo stesso tetto, e Lili cerca di ricostruirsi una vita completamente diversa da quella che aveva Einar, lavorando come commessa in una profumeria e desiderando una relazione con un uomo. Tuttavia, il suo smodato desiderio di terminare tutto in fretta la porta a sottoporsi a una vaginoplastica dopo troppo poco tempo: la donna muore il giorno dopo il secondo intervento, tra le braccia di Gerda. Gerda e Hans ricercano i paesaggi che Einar amava dipingere; mentre visitano un fiordo a lui particolarmente caro, una sciarpa che Lili aveva donato a Gerda vola in aria, e lei la lascia andare, finalmente libera.

 


 

 

Perfetti Sconosciuti (Cantina Di Giovanna, 15 luglio) 
la trama
Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta. Un tempo quella segreta era ben protetta nell’archivio nella nostra memoria, oggi nelle nostre sim. Cosa succederebbe se quella minuscola schedina si mettesse a parlare? Perfetti sconosciuti è un film dove tutto è il contrario di tutto, dove ognuno può raccontare la sua esperienza, può fissare dei confini tra cose giuste e sbagliate, corrette e scorrette, disdicevoli o no, parlando di vite segrete, di quello che non possiamo o non vogliamo raccontare. Nel corso di una cena, che riunisce un gruppo di amici, la padrona di casa Eva, ad un certo punto, si dice convinta che tante coppie si lascerebbero se ogni rispettivo partner controllasse il contenuto del cellulare dell’altro. Parte così una sorta di gioco per cui tutti dovranno mettere il proprio telefono sul tavolo e accettare di leggere sms/chat o ascoltare telefonate pubblicamente. Quello che all’inizio sembra un passatempo innocente diventerà man mano un gioco al massacro e si scoprirà che non sempre conosciamo le persone così bene come pensiamo.

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