Il Faro secondo Andrea Barzagli e Gianfranco Sabbatino de Le Casematte

 

Non sono molte le case vitivinicole i cui soci sono un commercialista e un calciatore di serie A. Ma questo è proprio l’assetto societario de Le Casematte di Messina, una cantina i cui vini la qualificano tra le aziende di punta della DOC Faro della Sicilia Orientale. Le etichette spiccano, senza timidezze, nei contesti isolani come in quelli nazionali.

L’azienda è attualmente in fase di espansione produttiva e commerciale. Il racconto di questa case-history di successo, in forma di una doppia intervista a Gianfranco Sabbatino e Andrea Barzagli, fornisce molti spunti di interesse su una Sicilia che, da un ventennio, è in costante crescita e affermazione. Abbiamo iniziato con Andrea Barzagli.

D: Barzagli, lei proviene da una famiglia “fiorentina”, quindi è nato in una parte del paese dove il vino faceva parte del tessuto sociale, una regione che contiene molte delle zone vinicole più prestigiose e rinomate d’Italia. Che tipo di rapporto vive con il vino?

Andrea Barzagli in un selfie

A.B. A dire il vero, nonostante si scriva di solito che sono fiesolano la verità è che io sono solo nato in quella parte collinare del circondario di Firenze, sono cresciuto a Firenze e ho iniziato la carriera calcistica, muovendo i primi passi nella Cattolica Virtus e poi nella Rondinella, con la quale, nel 1999, sono diventato professionista in Serie C. Poi il solito itinerario del giovane in questo sport, una serie di trasferimenti: Piacenza, Ascoli,  Verona e, alla fine, Palermo nel 2004 dove sono rimasto per quattro anni. Poi insieme al compagno di reparto Cristiano Zaccardo sono stato ceduto al Wolfsburg nella Bundesliga, mossa che mi ha dato la possibilità di disputare due annate consecutive della Champions League, ovviamente una bellissima esperienza. Sono della Juventus dal 2011 fino ad oggi, strano destino forse per un fiorentino DOC ma la vita ti dà queste sorprese.

D: Tutto questo vagare per l’Italia e l’Europa le avrà dato la possibilità di provare tanti tipi di vini abbinati a altrettante diverse cucine. Ha tratto vantaggio da una cultura gastronomica di livello?
A.B. Come a tutti, mi piace mangiare e bere bene, è una cosa normale. I calciatori sono pagati relativamente bene, siamo in grado di frequentare buoni ristoranti senza preoccupazioni eccessive; ma non ho la minima intenzione di qualificarmi come gourmet, sarebbe ridicolo, poi all’età di 25, 26 o 27 anni la tavola non è necessariamente la grande priorità della tua vita. Non erano gli anni prima del 2008 a spingermi verso un coinvolgimento nel mondo del vino, questo è poco ma sicuro.

D. Vuole descrivere dunque la scintilla che ha catalizzato la decisione di fondare, insieme a Gianfranco Sabbatino, l’azienda Casematte e quando è stata presa?

Il vigneto de Le Casematte

A.B. Più che una scintilla si tratta di amicizia. Avevo conosciuto Gianfranco, il socio attivo del nostro sodalizio, a Palermo. Avevamo amici comuni, ma non in campo vinicolo. Mi mandava bottiglie. Ma a quella epoca non c’era il benché minimo suggerimento di un coinvolgimento nel mondo della produzione. Lui sì, si occupava della materia in un contesto del tutto diverso. La decisione di diventare produttori insieme è stata presa quasi “per gioco”, mi si consenta l’espressione vista la mia professione. Nel 2008 mi è arrivata una telefonata di Gianfranco: “ho trovato una bellissima tenuta con delle casematte che sono rimaste dalla seconda guerra mondiale. La zona è in crescita e già evidenza di una importante potenziale qualitativo. Vuoi venire con me per dare un’occhiata alla proprietà? È in vendita”. Siamo andati insieme e siamo rimasti subito folgorati da questo appezzamento, un terreno alto sopra lo stretto di Messina con una vista fino a Reggio Calabria e oltre. Il mare sotto. Quel giorno spiravano dolci brezze. Non abbiamo esitato un istante, la trattativa sarà durata 5-10 minuti e poi la tenuta era nostra.

D. È passato del tempo dall’acquisto alla produzione della prima bottiglia? Come eravate attrezzati?
A.B. La vigna c’era già, anche se in pessime condizioni. C’era, invece, bisogno di una cantina. Dopo quattro anni ha preso forma ed è stata attrezzata con tutto il necessario per lavorare bene. Tutto questo è stato pianificato ed eseguito sotto la supervisione di Gianfranco, lui ha le competenze specifiche, che peraltro non pretendo di possedere. Poi, a partire dal 2009 ero lontano dalla Sicilia, prima in Germania, poi a Torino. Io contribuisco con passione e determinazione, oltre la condivisione economica del percorso che abbiamo intrapreso. Lui è il socio fondatore e CEO, io il partner che partecipa con entusiasmo e voglia di far bene.

D. La critica è stata molto entusiasta. Le recensioni hanno accolto unanimemente i vostri vini con punteggi alti. Recensioni assai lusinghiere hanno premiato sia l’impegno che le fatiche. C’è un segreto dietro questo successo?
A.B. Nulla che io sappia. Gianfranco può vantare su una lunga esperienza in campo vinicolo, non era un principiante che doveva imparare i rudimenti come tanti che hanno investito nella viticoltura nella speranza di sfondare immediatamente. La terra stessa è, chiaramente, l’elemento chiave. Il Faro sta dimostrando che, ogni anno sempre di più, la sua storica fama è meritatissima. L’abbandono, in un recente passato, era dovuto alle difficoltà di lavorare questi pendii così ripidi, alla frammentazione dei singoli possedimenti e alla lontananza dai grandi mercati. Senza i mezzi di comunicazione di oggi. Questi erano i fattori cogenti, non certamente la scarsità dei risultati. Un elemento molto importante, però, è stato il lavoro del nostro enologo, Carlo Ferrini. Professionista di grande esperienza, anche in diverse zone della Sicilia, ha incontrato qui da noi il nerello mascalese e il nerello cappuccio, non il nocera. Sono anche vitigni etnei, ha avuto dunque la possibilità di confrontarsi con queste uve portandosi il bagaglio di conoscenze già da lui acquisite sul vulcano.

D. Fiorentino come te, ci siete pigliati subito?
A.B. Assolutamente si, benché sia un tifoso sfegatato della Fiorentina, vizio di molti dei miei concittadini. Ma nessuno è perfetto (ride).

D. In termini concreti, il successo commerciale ha cambiato gli obiettivi e i programmi di investimento iniziali?
A.B. L’idea, sin dall’inizio, era quella di creare un’azienda a produzione artigianale. Una cantina da 500.000 bottiglie non è mai stata oggetto di pianificazione. Bisogna avere consapevolezza della propria dimensione e dei propri limiti. Vendere grosse produzioni di una appellazione quasi sconosciuta non rientra nelle possibilità di nessuno. Per il Faro, poi, le parole d’ordine sono, e debbono restare, “piccolo e/è bello”. Ai primi quattro ettari di vigneto se ne sono aggiunti altri dodici, 40-50 mila bottiglie sembra un target ragionevole e raggiungibile; la cantina è stata allargata per poter meglio affinare in vino, prima in legno, poi in bottiglia prima della commercializzazione.

D. Interviene nel marketing del brand, partecipando a presentazioni e degustazioni?
A.B. No e non credo neanche sia il mio ruolo. In ogni settore ci vogliono competenze specifiche, non sono esperto di vini da un punto di vista tecnico e non sono un esperto assaggiatore. A eventi di questo tipo devono andare le persone preposte. Non ho mai voluto che Casematte sfondasse come il vino di Andrea Barzagli, bensì come vino di livello, competitivo, ben fatto, territoriale ed espressivo. Anche in questo caso deve parlare il campo.


Gianfranco Sabbatino, messinese, classe 1969, ha smesso i panni del dottore commercialista per diventare vignaiolo a tempo pieno. Decisione piuttosto insolita, ma che sicuramente non ha rimpianti.  Oltre la soddisfazione di essere socio e direttore di una delle realtà vitivinicole di recente fondazione di maggiore interesse, con risultati economici ragguardevoli, ha il vantaggio di recarsi al lavoro presso un luogo di assoluta bellezza, uno di quei luoghi di suggestione incomparabile che solo l’Italia può vantare.

D. Può raccontarci il percorso che ha portato la sua vita professionale dai libri di contabilità ai filari dei vigneti?

Gianfranco Sabbatino

G.S. A dire il vero si tratta di una serie di tappe e la fondazione e affermazione delle Casematte è solo la conclusione di decenni di coinvolgimento nel mondo del vino, una specie di happy-ending, un lieto fine, che corona apprendimento, applicazione e determinazione. C’è sempre stata la passione ma, come ogni successo che si racconti, anche molto sudore e un impegno che non ha conosciuto soste.

D. Dove e come l’inizio?
G.S. A Salina dove, per più di due decadi, mi sono occupato della azienda Carlo Hauner, una necessità dopo la scomparsa del fondatore nel 1996. I miei compiti erano chiaramente amministrazione e commerciali, non avevo alcuna preparazione tecnica, né viticola né enologica, ma la casa aveva già un suo protocollo di lavoro sia in vigna che in cantina e non c’era alcun bisogno di interventi da parte mia nella produzione dei vini. Se tieni occhi e orecchie aperte, e se il cervello funziona, impari tante cose che servono professionalmente. Per me è stata una buona palestra anche perché l’azienda, per quanto poco noto, aveva una produzione abbastanza variegata. Si parlava prevalentemente dei vini da meditazione, ma c’era una gamma completa, vino rossi e bianchi secchi, da pasto. E Hauner stesso ha avuto il grande merito di aver rilanciato, quando sembrava dovesse scomparire, la produzione di vino a Salina, isola che, prima della filossera, era coperta di vigneti, un po’ come Madera, realtà ovviamente più grande. È stato grazie a lui che la viticoltura eoliana e questi vini sono come risorti, dopo una fase di stasi in cui sembravano roba da WWF, in pericolo di estinzione.

D. Parla al passato, è terminata l’esperienza?
G.S. Direi modificata, è mio figlio che adesso se ne occupa stabilmente ma continuo a fare la spola benché la mia presenza a Salina è diventata più sporadica. Sono tornato sulla terra ferma, da due anni abito a Palermo. Ma la mia vita è nel messinese dove sono nato e il cerchio, in un certo senso, si è chiuso.

D. Da amministratore a vignaiolo, una transizione abbastanza insolita. È il risultato di una decisione o una casualità?
G.S. Più la seconda, sono andato a Faro Superiore per occuparmi della liquidazione di un’azienda. Lontana qualsiasi ipotesi di coinvolgermi nella gestione di una cantina, soprattutto in un luogo completamente fuori mano i cui vini – pochissime bottiglie una decade fa – non erano ben conosciuti neppure in Sicilia. Figuriamoci altrove. Ma c’è stato il classico colpo di fulmine, difficile non essere ammagliato da un luogo così magico e questa emozione è stata subito condivisa da Andrea. “Me la prendo io” ho detto, d’accordo Andrea, anche se era ovvio che gli ostacoli da superare erano tanti, come detto la poca rinomanza di Faro, come areale e come vino. Al momento dell’acquisto c’era solo la terra, una vigna era stata piantata ma poi abbandonata, insomma dovevamo partire da zero.

D. Certo, il coraggio non vi è mancato. Perché questa fiducia in un progetto così donchisciottesco?
G.S. Basta visitare Le Casematte per capirlo subito. L’unicità del sito e il fatto che c’erano già delle buone etichette di questo vino. Avevamo la conferma che, lavorando bene, i risultati si sarebbero ottenuti. Non uno di quei vini mitici di cui non si trova neppure un esemplare che possa servire da verifica. Fattore importante, anzi, secondo me determinante, è la presenza storica nella zona del nerello mascalese, a mio avviso una grande varietà che, trattata con il dovuto rispetto, dà un vino speciale che non assomiglia a nessun altro al mondo. Da risultati solo qui e sull’Etna, ci hanno provato in diverse altre zone della Sicilia; ma i vini, sebbene gradevoli, non hanno molta personalità e sicuramente hanno ben poca somiglianza con le migliori produzioni messinesi o etnee.

D. Può elencare i punti di forza della appellazione Doc Faro?

Il Faro di Le Casematte

Il Faro di Le Casematte (servizio presso il ristorante Cappero, una stella Michelin, del lussuoso Therasia Resort di Vulcano, Isole Eolie)

G.S. Come nel caso di tutti i vini di pregio, sono fondamentali la terra e il clima. I suoli qui sono prevalentemente sciolti, sabbie vulcaniche, come del resto quelli del più grande vulcano attivo dell’Europa. Il clima ovviamente è siciliano, ma si sbagliano coloro che pensano a temperature torride soprattutto durante l’estate, quella specie di canicola permanente idonea solo alla produzione di vini corposi, alcolici, spesso pesanti e di difficile abbinamento con i piatti di una certa finezza. Il Faro è un vino elegante e profumato, grazie indubbiamente al nerello mascalese, ma indubbiamente al microclima di cui ci godiamo in questo ultimo lembo del Messinese.

D. Le caratteristiche salienti di questo microclima?
G.S. Sono diversi. Inizio dall’altitudine, più di 500 metri sopra il livello del mare. Proprio il mare, direttamente sotto i vigneti, crea un riverbero, una riflessione di luce dall’acqua che colpisce le uve e le aiuta a maturare bene senza grandi picchi di temperatura. Anche a Bordeaux ti dicono che la luce, la luminosità, è un fattore fondamentale nella fragranza e finezza del loro cabernet, dolce e profumato senza arrivare alle gradazioni californiane o australiane o persino delle zone dell’Italia centrale. Anche nelle giornate di foschia, c’è una luce diversa da quella dei cieli coperti delle zone interne della Sicilia o altre regioni italiche. Sullo Stretto soffiano venti incrociati dello Ionio e del Tirreno che creano una costante ventilazione che favorisce belle escursioni termiche fra giorno e notte e riduce allo stesso tempo attacchi delle malattie fungine, tipo oidio e peronospora. Ultimo pezzo del tassello, i vigneti sono esposti a nord. Le temperature diurne sono più basse esattamente come nelle sottozone più rinomate dell’Etna.

D. Questi sono fattori importanti. Parliamo ora delle uve e della piattaforma ampelografica in confronto con quella dell’Etna. Quali sono le somiglianze e differenze?
G.S. In entrambe le zone la base della produzione, sicuramente l’elemento qualificante, è il nerello mascalese. Poi, in generale, qui c’è pure una presenza più importante del nerello cappuccio, molto diverso dal mascalese. Alcune ricerche lo ritengono simile al cannonau o al carignan (la questione è controversa e non c’è unanimità di vedute in merito). Poi abbiamo anche il nocera, un’uva molto interessante su cui bisogna lavorare. Ha un’acidità vibrante e aggiunge sapidità ai vini. Nel nostro caso c’è pure una piccola percentuale di nero d’avola, uva del sud-est della Sicilia che è arrivata fin qui nel messinese. Il blend, insieme agli elementi oggettivi di clima, altitudine e suolo, rende il Faro diverso, sebbene della stessa famiglia dei rossi etnei. Offriamo nella nostra gamma anche un vino bianco che utilizza il catarratto e il grillo, per noi le uve a bacca bianca più importanti dell’isola. Trovano qui un ottimo habitat grazie alle condizioni climatiche già citate.

D. Ha già detto che l’esperienza ventennale a Salina le ha permesso, pur senza una formazione specifica, di carpire molti segreti della vigna e della cantina. Ma l’alta qualità dei vini, sin dalle prime uscite, testimoniano livelli di conoscenza e capacità di interpretare le uve fuori del normale. Anche qui c’è qualcosa da raccontare?
G.S. Chi mira a risultati che rendono i vini competitivi verso i migliori sul mercato non può pensare di fare da sé. Infatti, nel 2012, ho chiesto una collaborazione costante a Carlo Ferrini, ancora il nostro consulente, enologo dalle doti di assoluta superiorità dal punto di vista tecnico e, allo stesso tempo, assaggiatore di una sensibilità di prim’ordine. Lavora in Sicilia da molti anni e l’ho scelto non solo perché ammiravo i vini fatti in altre aziende siciliane in cui prestava i suoi consigli, ma anche perché, lavorando sull’Etna, conosceva già il nerello mascalese, requisito fondamentale per chi vuole fare un buon Faro. Decisione azzeccatissima, tanto che persino le prime produzioni erano molto positive; e mi permetto di dire che il miglioramento costante di tutta la gamma è evidente, non solo a noi, ma anche alla clientela. Un giudizio che chiaramente conta di più.

D. Cosa ha apportato di specifico Ferrini alla realizzazione dei vini?
G.S. Un grande rigore, che era anche il nostro. Carlo ha una formazione agricola, si è laureato in agraria a Firenze. Le nostre vigne, grazie al suo rigore, ci danno un’uva che è veramente bella. L’azienda pratica una agricoltura biologica, solo rame e zolfo per i trattamenti, e anche in cantina limitiamo i nostri interventi allo stretto necessario. Utilizziamo, ovviamente, i legni per il Faro, ma anche in questo caso stiamo molto attenti a non calcare la mano. Il nostro obiettivo è di dare la massima espressione alle sensazioni varietali e territoriali, l’impronta del nerello mascalese di questa zona deve predominare nel modo più assoluto.

D. Il tuo entusiasmo, anzi, passione traspare non appena cominci a parlare di questa nuova avventura che ha ti cambiato la vita…
G.S. Certo, non mi sarei mai aspettato la gioia che infonde la produzione di un proprio vino. Ho le tipiche preoccupazioni e le ansietà dell’agricoltore, quelle che si vivono durante il ciclo vegetativo, dal germogliamento fino alla vendemmia, ma noi da questo punto di vista abbiamo pochi problemi. Non son una persona vanitosa, ma il successo che abbiamo avuto conferma la giustezza di una serie di comportamenti, decisioni e impostazioni che hanno caratterizzato il progetto dai primi giorni. Che ci hanno consentito di ingrandire la produzione per venire incontro alla richiesta crescente del vino di vari mercati, ormai lavoriamo con gli USA, Giappone, Belgio, Svizzera e Inghilterra e siamo anche ben distribuiti in Italia. Arrivando ad una produzione stabile di 40-60 mila bottiglie saremo in grado di soddisfare questa clientela e, allo stesso tempo, tenere sotto controllo il lavoro in vigna e cantina. La voglia di fare un passo più lungo della gamba è una tentazione costante, soprattutto quando la produzione “tira”, ma non abbiamo la minima intenzione di cadere in questa trappola. La dimensione attuale ci permette anche di cambiare, sperimentare e migliorare il livello della produzione. I nuovi vigneti sono ad alberello, un ritorno alla grande tradizione sicula nella quale Carlo Ferrini crede totalmente. E in cantina i legni piccoli sono tonneaux, 500 litri, una bella differenza rispetto ad un fusto di 225 litri. Ora che ho scelto questa nuova vita intendo viverla con la massima intensità e cogliere da essa ogni soddisfazione possibile. Insieme, ovviamente, ad Andrea, con il quale ho condiviso tutto sin dal primo giorno.

Le Casematte
di Gianfranco Sabbatino e Andrea Barzagli
Contrada Corso
98058 Messina
tel. 090.6409427
www.lecasematte.it
Facebook: www.facebook.com/lecasemattesicilia


Photogallery

Scritto da