Emiliano Falsini, classe 1973, è uno dei più attivi – e più quotati – giovani enologi della sua generazione. Nato ad Empoli e cresciuto a Limite sull’Arno vicino a Firenze, ha frequentato l’Istituto Tecnico Agrario del capoluogo toscano prima di laurearsi all’Università di Firenze con una tesi sulla maturazione del Sangiovese. Nell’anno 2000 si è aggregato al Gruppo Matura, un’associazione di consulenti enologici fondato da Alberto Antonini e Attilio Pagli, ma non prima di aver lavorato sia in California (alla Robert Mondavi, se vi sembra poco) e in Nuova Zelanda, all’azienda Villa Maria “per migliorare le mie conoscenze della lavorazione delle uve bianche”. A questi sono seguiti circa quindici anni di intensa attiva come consulente e, fatto piuttosto insolito per un enologo toscano, i produttori meridionali hanno occupato uno spazio importante nel suo portafoglio clienti. Fra questi, i siciliani sono al primo posto.
D. A quale periodo risalgono i primi contatti professionali con la Sicilia e cosa sapeva dell’isola e dei suoi vini? Quando ha iniziato a lavorarci?
R. Alla fine del 2004 e all’inizio del 2005, con l’azienda agricola Girolamo Russo di Castiglione della Sicilia. Il contatto era un po’ casuale, Giuseppe Russo aveva interpellato prima di me il mio collega Lorenzo Landi, che lavorava insieme con me nel Gruppo Matura; ma Lorenzo era già impegnato con un’altra azienda importane della stessa zona, l’Etna, e decise di dare l’esclusiva alla casa con cui aveva già un ben avviato rapporto lavorativo. Per quanto riguarda le mie conoscenze vitivinicole della Sicilia, devo confessare che erano molto limitate, a dire il vero non ci ero neanche mai stato. Ho iniziato dunque a collaborare con un produttore quasi altrettanto acerbo. Giuseppe Russo aveva una formazione musicale e, sebbene la famiglia avesse un patrimonio fondiario di notevole importanza, non si era mai occupato delle vigne. Fortunatamente questi possedimenti comprendevano parcelle di vecchie viti in posizioni molto felici; la base del lavoro poi l’abbiamo sviluppata insieme. Posso dire che la sua passione per il nuovo mestiere, quello del vignaiolo, è intenso e molto profondo. Strada facendo abbiamo acquisito un notevole bagaglio di esperienza sulle uve della zona, la cultura è arrivata così per entrambi.
D. La produzione etnea di quel periodo le ha fornito qualche suggerimento su come lavorare con queste uve, come trasformarle in vini gradevoli e convincenti?
R. Ho cominciato ad occuparmi dei vini dell’Etna proprio quando iniziavano ad uscire sul mercato i primi vini di un nuovo livello qualitativo ed espressivo; di modelli prima ce n’erano ben pochi e comunque non basta aver la possibilità di degustare vini che garbano di una zona. Bisogna capire come siano stati realizzati e per questo l’assaggio, da solo, non basta. Forse vale la pena ricordare che, quando iniziai a lavorare con le uve dell’Etna, eravamo alla fine di un ciclo quindicennale in cui si cercava – credo che dobbiamo onestamente dirlo – potere, intensità e concentrazione quasi a tutti i costi. È anche possibile dire, con il senno di poi, che molti di questi vini erano “potenti” solo perché molto costruiti in cantina, molto calcolati con alte percentuali di correttivi e dosi alle volte piuttosto massicce di legno nuovo. Io e molti colleghi della nuova leva cominciavamo ad essere piuttosto stanchi di questa impostazione che lasciava poco spazio sia al carattere varietale dei vitigni, sia alla impronta territoriale, la collocazione geografica delle aziende e vigne. Non direi che eravamo alla ricerca di un nuovo approccio né sicuramente che avevamo già capito di più dei nostri predecessori, dopotutto i vini del passato non erano modelli di ampiezza e pienezza. Posso dire che la meta di vini possenti e sontuosi non poteva funzionare sull’Etna, la materia prima non si prestava alla realizzazione di quel tipo di vino. Il Nerello Mascalese è una grande vitigno, poliedrico ma nervoso, un po’ tannico. Ci vuole attenzione e giudizio in ogni fase della sua lavorazione. Alle volte viene paragonato al Nebbiolo e io, infatti, ho preso come modelli alcuni Barolo classici come, per fare due nomi, quelli di Bartolo Mascarello e Beppe Rinaldi. Ho imparato molto presto però che si può spingere con le estrazioni solo durante le fasi iniziali, finché c’è l’alcool; dopo servono lunghe macerazioni e molta pazienza. Poiché, a differenza di molte figure della generazione precedente (e lo dico semplicemente per documentare un fatto, non per la presunzione di una supposta superiorità di preparazione professionale) ho una formazione agronomica e ho lavorato molto, insieme ai produttori, sull’aspetto viticolo delle problematiche, sfogliando, diradando, cercando un’uva di grande maturità.
D. La collaborazione con Russo è stata sinora la sua sola esperienza in questa DOC?
R. No, più recentemente sto lavorando, di nuovo e con grande soddisfazione, con Alberto Aiello Graci dell’omonima azienda. I vini prodotti sinora hanno confermato le convinzioni maturate negli anni precedenti. Aggiungerò qui che la parcellazione che abbiamo fatto ci aiuta molto durante la vendemmia. Raccogliamo l’uva non soltanto parcella per parcella, ma anche all’interno del singolo appezzamento dove possono verificarsi differenze notevoli sia del carattere che della qualità dei grappoli. In cantina, dove lavoriamo con tini tronco-conici per le fermentazioni e con botti per gli affinamenti, ho avuto una ulteriore prova che il legno deve essere dosato con cura e discrezione. Le botti sono piccole e di legno nuovo ce n’è poco. Non serve, anzi.
D. Dato che, ad esclusione della DOC Faro, il Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio non hanno dato risultati scontati, suppongo che per lei il vitigno a bacca rossa di maggiore rilevanza professionale sia il Nero d’Avola. Avrà sicuramente fatto un percorso con questa varietà. Ce lo può raccontare?
R. Certo, il mio primo incontro con questa uva è avvenuta proprio in un’azienda della DOC Faro, quella di Enza La Fauci. La zona mi piace molto, anche per l’eleganza dei vini, ma lì il Nero d’Avola è soltanto un comprimario, la base della produzione è il Nerello Mascalese. Poi, ho avuto l’opportunità di poter approfondire le mie esperienze con il Nero d’Avola nel ragusano quando ho iniziato a collaborare con Paolo Calì. Pare che il Nero d’Avola sia originario del sud-est siciliano (Avola infatti si trova in provincia di Siracusa), quindi Vittoria, dove opera l’azienda Calì. Che potrebbe essere considerato l’ultimo lembo della zona d’origine di questa varietà. Non è sorprendente dunque che debba condividere il palcoscenico con un’altra uva, il Frappato, che trova qui il suo luogo d’elezione.
Ma torniamo al Nero d’Avola. Buona parte della produzione di questo vino è impiegato per il Cerasuolo di Vittoria, il vino portabandiera della zona. Sostiene Frappato, aggiunge sostanza, colore e anche acidità. I suoli sono sabbiosi e qui, come altrove, tentare di esagerare con le estrazioni non serve a nulla. Il nostro Nero d’Avola in purezza, ad esempio il Violino, è affinato solo in serbatoi di acciaio inox, così come il Cerasuolo di Vittoria base, il Manene. Il Cerasuolo di Vittoria più ambizioso, invece, il Forfice, affina in legno; ma sono botti grandi, non vogliamo – perché non possiamo – calcare la mano, evitiamo effetti negativi sul vino.
D. Quindi ha lavorato con il Frappato solo in questa azienda; è un vitigno che non si trova al di fuori del ragusano e dalla Sicilia. E’ corretto?
R. Vero, ed è stata una sorpresa veramente gradevole. Lo ritengo un grande vitigno, fragrante ed elegante con una purezza di frutto incantevole, alle volte sembra bere dei lamponi. Cerchiamo di vinificare le uve nel rispetto di queste sue precipue qualità. Si ritiene che sia un vino da bere giovane, ma non sono del tutto d’accordo. I tannini ci sono; alle volte assomiglia un po’ al Gaglioppo calabrese sebbene – fortunatamente – meno astringente. Viene favorito nel taglio del Cerasuolo di Vittoria, il risultato è un vino più fine, più espressivo e più territoriale. Secondo me è anche un’ottima base per un rosato, insomma un’uva molto versatile che mi ha dato molta soddisfazione. Mi sono impegnato fortemente perché, quando ci sono risultati postivi nel breve, gli stimoli si moltiplicano. Anche in questo caso il lavoro in vigna è stato fondamentale e la decisione di vendemmiare con maggiore ritardo ci ha dato vini più rotondi, meno acidi rispetto al passato.
(fine prima parte – continua venerdì 6 gennaio 2017)
di Daniel Thomases