Mario Ronco, nato nel 1968 ad Asti, potrebbe benissimo essere descritto come figlio d’arte, suo padre era negoziante di vino nell’astigiano – monferratese. Formatosi prima alla Scuola Enologica di Alba, dove si è diplomato nel 1987, ha lavorato fra il 1987 e il 1995 con Donato Lanati, nel cui studio, l’Enosis, ha anche incontrato la sua futura moglie Silvia Gianotti, che si era laureata sia in chimica che in farmacia all’Università di Torino. Analista esperta, ha coperto incarichi di rilievo presso aziende piemontesi, compresa la Martini & Rossi. Un’equipe completa, quindi, che ora, sin dal 1995 quando Ronco iniziò la carriera di libero professionista, si è creata una clientela estesa proprio a nord di Asti. Ma non solo: le sue consulenze ormai si spaziano sino a Barolo, Ghemme, il canavese, Carema, la Valle d’Aosta e la Liguria nonché, più recentemente, alla Toscana, dove offre i suoi consigli professionali nella zona del Vino Nobile di Montepulciano, e alla Sicilia. La collaborazione con Cusumano risale all’inizio del millennio e l’ha portato nelle varie zone della Sicilia in cui la casa opera.
T. La Sicilia, in passato, ha conosciuto diversi enologi d’origine piemontese, Franco Giacosa di Duca di Salaparuta, Gianfranco Torrenga della cooperativa Settesoli e Carlo Corino di Planeta; ma più recentemente siete stati sorpassati dalla falange dei toscani. Nel suo caso, come è iniziata la collaborazione con Cusumano?
R. Io e Diego Cusumano avevamo un amico comune, all’epoca – stiamo parlando di più di una quindicina di anni fa, nel febbraio del 2000 – Cusumano aveva già un volume importante di produzione di vino ma era principalmente sfuso, c’era un po’ di vigna vicino alla cantina ma c’era molta uva comprata. L’idea era di cercare una qualità di produzione superiore, da imbottigliare, e per conseguire questo risultato era evidente che bisognava puntare su vigneti di proprietà, da gestire in maniera tale da fornire un’uva di livello, studiata e prodotta appositamente per i vini che si sarebbero cercati di produrre. L’azienda è attualmente proprietaria di 520 ettari di vigne dislocati in varie parti dell’isola, dunque stiamo parlando di un programma molto ambizioso, costoso e dilatato nel tempo, tutta questa terra non si può acquistare senza lunghi studi e riflessioni. Ovviamente basati sullo sviluppo della proposta, i riscontri del mercato, ciò che si apprende lavorando e i gusti e l’evoluzione dei paesi con cui lavoriamo.
T. Parliamo quindi proprio di questo programma di sviluppo, zona per zona e fase per fase.
R. Con piacere, la base dell’azienda è a Partinico fra Palermo e Trapani e i primi acquisti, di conseguenza, erano nella parte occidentale dell’isola, a Ficuzza nel comune di Monreale, per un totale di 150 ettari di vigneti, abbiamo trovato 12 ettari di Chardonnay e altri vigneti allevati a tendone che abbiamo levato. Lì abbiamo piantato, oltre ad uve bianca, Syrah, Pinot Nero e Nero d’Avola. Le zone sono collinari, arriviamo fino a 700 metri s.l.m. con una buona escursione termica che aiuta molto le uve; i vitigni rossi sono esposti a sud e ora che sappiamo lavorare bene queste parcelle e il clima è più caldo l’uva non soffre l’altitudine. Le vigne stesse sono piuttosto insolite per l’isola, la potatura è a Guyot, un sistema non molto diffuso in Sicilia ma, più che altro, i filari sono a giropoggio, non a ritocchino. Sono piemontese, questa è la mia tradizione – Guyot e giropoggio – e ritengo che questa sia una scelta che comporta distinti vantaggi. Così si può vendemmiare tutto un filare allo stesso tempo, l’uniformità di altitudine normalmente significa una ragionevole omogeneità di maturazione mentre, soprattutto dove i filari sono lunghi e c’è un certo dislivello fra la parte più bassa e quella più alta, uno è costretto a raccogliere le uve in momenti diversi persino nella stessa parcella, una perdita di tempo accompagnata pure da problemi logistici di trasporto alla cantina. E quando piove, le parti più basse, dove normalmente i terreni sono più pesanti, presentano notevoli difficoltà di manovra se c’è la necessità di vendemmiare meccanicamente. No, piemontese sono e piemontese rimango, su questo punto sono convintissimo e irremovibile.
T. Intanto i maggiori volumi di produzione avrebbero obbligato la casa a cambiamenti anche nella cantina, no?
R. Certamente, la cantina era organizzata per un altro tipo di lavoro ed è stata riorganizzata in un modo fondamentale. I vinificatori – che sono 316 – sono molto più piccoli per poter fermentare le singole parcelle dei vigneti separatamente e in seguito tenere i vari lotti separati sia per i futuri blend che le future selezioni. Sono in acciaio inossidabile e abbiamo, logicamente, un importante gruppo frigo per mantenere le temperature costantemente sotto controllo, dopotutto siamo in Sicilia, non sul Reno. Le pompe peristaltiche hanno rimpiazzato quelle a pistone, c’è una differenza di prezzo notevole ma una differenza qualitativa altrettanto significativa. Partinico è vicino al mare, c’è un problema di salsedine, tenere tutto pulito e libero di accumuli di sale richiede un’attenzione costante e un certo investimento di tempo, ma non abbiamo alternative. Per quanto riguarda la bottaia, abbiamo due vini principali che sono affinati in botti, l’Inzolia Cubia e i Sagana Nero d’Avola, le botti sono di 20-25 ettolitri di capienza, così assomigliano molto quelle classiche impiegate per vini come il Barolo e Barbaresco e io, piemontese, ho una buona familiarità con i legni di questo tipo. C’è una lunga tradizione della botte in Italia, qualcosa sicuramente da rispettare e valorizzare, e una regione con una tradizione così antica come la Sicilia deve tenere questo in debito conto. Per lo Chardonnay, Jalé, e il Noà, un taglio di Nero d’Avola, Merlot e Cabernet Sauvignon, invece, utilizziamo tonneaux e barrique, ormai con una percentuale di legno nuovo ormai molto calibrata, benché io personalmente non abbia mai calcato la mano con il rovere nuovo, lascio volentieri i vini da falegname agli altri.
T. Spiegazione piuttosto esauriente, torniamo quindi alle nuove proprietà e vigne
R. Un investimento piuttosto impegnativo è stato fatto a Butera, altri 140 ettari in una terra storicamente da Nero d’Avola, che domina infatti la superficie vitata che si trova a 450 metri di quota, c’è calore e c’è freschezza, indubbiamente le chiavi della qualità che riusciamo ad ottenere; c’è pure un po’ di Syrah. È qui che otteniamo l’uva per il nostro Tenuta San Giacomo Sagana. I suoli sono bianchi e calcarei, altro fattore che indubbiamente aggiunge l’eleganza che cerchiamo nei vini fatti con questa varietà. Noi dobbiamo mettere la professionalità e l’esperienza che decenni di lavoro di hanno conferito, ma alla fine dobbiamo anche ricordare che una buona parte del lavoro è fatta dalla terra stessa, tocca a noi cercare di capirla, le sue possibilità e potenzialità.
T. Ci siamo spostati una bella distanza verso l’est da Partinico, siete rimasti anche nella zona d’origine con i nuovi progetti e investimenti?
R. Certamente, siamo molto presenti a Camporeale dove abbiamo altri 150 ettari di vigneto a 350 -400 metri sopra il livello del mare. Il terreno è per lo più argilloso e su questi suoli abbiamo piantato Nero d’Avola e Syrah, le cui strutture beneficiano da questo tipo di terra. Abbiamo anche Grillo, però, per questa varietà abbiamo scelto terreni più sciolti, sabbiosi, nella zona di Montepetroso; li riteniamo migliori, abbiamo acini meno grossi rispetto ai terreni più fertili che, alle volte, si trovano nel marsalese.
Per parlare proprio di Partinico, è lì che coltiviamo i tre ettari che ci forniscono le uve per il nostro vino dolce, la sottozona, che si trova vicino al mare, si chiama Zucco e così abbiamo chiamato il vino il Moscato dello Zucco, da cui si deduce facilmente che si tratta di un vino a base di questo vitigno. Non è il classico Moscato con cui sono cresciuto in Piemonte che noi chiamiamo Moscato Bianco e i francesi conoscono come “Muscat Blanc a petits grains” per i suoi acini piccoli, i chicchi del nostro sono piuttosto grandi ma non si tratta di un Moscato d’Alessandria che si coltiva, ad esempio, a Siracusa e sull’isola di Pantelleria. Il vino è un passito e l’uva è appassita in parte sulla pianta e in parte in cassettine basse e forate – tipo Valpolicella – in celle, la proposta è decisamente dolce come, a nostro avviso, deve essere un vino di fine pasto, gli zuccheri residui sono regolarmente vicino a 200 grammi/litro. Non è un momento molto positivo per questa categoria, i vini dolci in generale stentano, non c’è una grande richiesta, ma produciamo 8.000 mezze bottiglie e riusciamo a venderle, un segno che il mercato ha riconosciuto la qualità della proposta. Che ricalca fra l’altro una vecchia tradizione – la storia del Moscato in Sicilia ha radici antichissime e siamo ovviamente felici di averci aggiunto un altro capitolo.
T. Parlando di antiche tradizioni, hai mai la possibilità di lavorare con i vecchi alberelli classici della Sicilia?
R. Sì, a Pachino, una delle aree da sempre contraddistinta da vigneti di questo tipo. Lì abbiamo 20 ettari di vigna, alcuni dei quali con l’alberello come sistema di allevamento. Sinora non ho notato differenze rilevanti di carattere e qualità fra queste parcelle e altre allevate con sistemi meno antichi o tradizionali, che dir si voglia. Diverso, invece, è il terreno, un po’ acido come pH anche se la zona stessa non lo è. Ma questa è solo una delle differenze che si può riscontrare in questa parte dell’isola e, come sempre, far risalire ad un unico fattore la ragione della differenza non è facile e forse non vale neanche la pena, basta accorgersene e agire di conseguenza.
T. Ha citato, en passant, il marsalese, poiché Partinico non è molto lontano da questa storicissima parte della Sicilia, la possibilità di lavorarci non ha mai suscitato interesse per la Cusumano?
R. Lo ha, eccome, là siamo proprietari di 40 ettari a vite nella frazione Castelluzzo di Calatafimi dove coltiviamo Nero d’Avola e Cabernet, la zona è alta, fra i 500 e 600 metri, e molto salubre così che possiamo anche praticare una viticoltura biologica. Sono ottime uve, prima il proprietario ce le conferiva, abbiamo avuto la fortuna di poter comprare la vigna a fine 2016 e siamo molto contenti, non sempre c’è la possibilità di acquistare la produzione di un vigneto ben conosciuto e con una regolarità di alta qualità sicura.
T. Vedo che, come tanti, Cusumano si è aggregata alla corsa all’Etna, ma mi pare che il progetto sia piuttosto nuovo, vero?
R. Verissimo, siamo proprietari di 18 ettari a Verzella nel comune di Castiglione della Sicilia, ma i primi vini prodotti sono approdati al mercato solo recentemente ed erano della vendemmia 2013. Nel 2014 abbiamo aggiunto un Etna Rosso selezione di nome Guardiola, altro toponimo del medesimo comune. Si tratta ovviamente di una viticoltura di montagna, siamo al di sopra di 525 metri nel caso di Verzella e a più di 600 metri a Solicchiata, la frazione in cui Guardiola si trova. Sette di questi ettari sono ad alberello, il resto è a Guyot. Abbiamo allestito una bella cantina che ci permette di lavorare come vogliamo, ci sono quasi una cinquantina di vasche; i vini sono affinati prevalentemente in botte con l’impiego supplementare di qualche tonneau da Partinico. Adoro i profumi e sapori di questo vino che alle volte mi ricorda un Gattinara di classe ed eleganza: un colore un po’ tenute, grande fragranza con note di piccoli frutti, liquerizia ed eucalipto, tannini fini e, quando lavoriamo bene, setosi, levigati, saporiti. Il vino tende, per il mio gusto, a “nebbioliggiare”, forse per questo io mi trovo molto a casa qui. Diceva Platone che tutto l’apprendimento è solo un ricordo di ciò che sapevamo prima, anche se non credo di aver vissuto in mezzo di questi vigneti in un’esistenza precedente, né che sbarcare a Verzella facesse parte del mio karma. E sono felicissimo di aver partecipato, insieme con tanti altri, alla rinascita della zona e al riscatto dei vini, molto famosi e ricercati all’inizio del Novecento. Sul fascino dell’Etna e dei suoi vigneti è stata versata una quantità di inchiostro impressionante, quindi non ne aggiungo altro.
T. Diciassette anni non sono pochi, avrà visto e sentito tutto e il contrario di tutto.
R. E’ vero, ma è stata comunque un’esperienza fondamentale per me, in Piemonte, la base del mio lavoro da consulente, ho lavorato principalmente con piccole e medie aziende, mentre con Cusumano ho dovuto imparare a gestire quantitativi di un tutt’altro ordine di grandezza: facciamo 300.000 bottiglie del Angimbé, un taglio di Inzolia e Chardonnay, e lo stesso numero del Benuara, Nero d’Avola e Syrah, mentre arriviamo addirittura a 400.000 pezzi del Insolia Terre Siciliane e a 600.000 con il Nero d’Avola Terre Siciliane. Volumi che arrivano poi da una serie di provenienze con condizioni pedologiche e climatiche diverse, gestite con tecniche viticole diverse, una bella sfida per un enologo. Un percorso che insegna tanto e permette una crescita professionale senza pari. A parte lo Chardonnay, poi, con cui avevo una certa familiarità e pratica in Piemonte, mi sono trovato anche alle prese con una serie di vitigni che non conoscevo nella maniera più assoluta e mi obbligavano ad imparare a correre molto velocemente, non c’era tempo né per pause né scuole di recupero. La soddisfazione più grande però era la possibilità, lavorando con Alberto e Diego Cusumano, di vivere, passo per passo e tappa per tappa, la trasformazione di un’azienda da fornitore di vino sfuso a realtà presente, con molta credibilità, nei mercati di qualità nazionali e internazionali, quotata nelle guide e sulla stampa specializzata, produttrice di vini che concorrono con i più rinomati dell’isola. Noi, come la Sicilia, possiamo rivolgere lo sguardo all’indietro e dire che ci siamo dati da fare e il vino siciliano ora ha una nuova immagine rispetto al passato e che i nostri sforzi, insieme con quelli di tanti colleghi, hanno lasciato il segno.