Daniel Thomases, prestigiosa firma italiana del vino e nostro collaboratore in WIS, ha intervistato l’enologo Silvio Centonze di Rapitalà, GIV – Gruppo Italiano Vini. L’intervista completa la prima parte già pubblicata il 13 febbraio scorso (vedi qui). Salutiamo e abbracciamo con immenso affetto Daniel, che in questi giorni soffre di problemi di salute. Siamo certi che si riprenderà presto per proseguire nelle interviste sui vini di Sicilia.
di Daniel Thomases
Silvio Centonze, nato a Marsala il 25 maggio del 1973, si preparò per la sua carriera futura all’Università di Padova. La famiglia operava già nel mondo del vino, ma non come produttori, bensì nel campo della impiantistica e dei prodotti enologici, una scelta piuttosto logica nel marsalese, zona fra le più vitate d’Italia. Che il vino fosse al centro delle attività familiari è comunque testimoniato dal fatto che anche il cugino Niccolò Centonze svolge l’attività di enologo.
Il tuffo nel mondo della produzione, però, avviene molto presto e sicuramente non in un luogo di poco conto, anzi; subentrato a Luigi Lo Guzzo nel 1999, prese le redini tecniche della Tenuta di Rapitalà, già un’importante realtà vitivinicola isolana, dove doveva occuparsi di una superficie vitata molto estesa e di produzioni vinicole importanti. Non una missione impossibile, ma indubbiamente una bella sfida per un uomo di poco più di 25 anni di età.
Il racconto della tenuta descrive una bella fetta della storia vinicola postbellica della Sicilia e all’inizio si trattava di altri tempi davvero: all’epoca la produzione di vino imbottigliato in Sicilia non era molto diffusa, quello destinato al taglio invece sì. Ma l’amicizia dei giovani proprietari con Luigi Veronelli, che stimava sia la coppia che i loro vini, ha dato una bella visibilità alla tenuta e la diffusione dei vini della Rapitalà nel mercato italiano e anche in Europa (in primis in Germania e Francia) seguì rapidamente. Ecco la cronaca di una quarantina di anni sulla breccia, vissuti appassionatamente.
D: Entrare in una realtà così importante ad una età così giovane non è da tutti, può descrivere la tenuta è ciò che ha trovato all’ingresso nell’azienda?
R: Volentieri. La proprietà era della famiglia Guarrasi, aveva una estensione notevole, ma nulla in confronto ad altri tempi. All’inizio del Novecento gli ettari erano più di mille, un vero e proprio feudo. Credo che tutti sappiano del terremoto del 1968 nella Valle del Belice, evento sismico veramente devastante. La decisione di ricostruire su basi nuove l’attività vitivinicola fu un gesto di coraggio veramente ammirevole. Venne presa dalla nuova generazione della famiglia Guarrasi, Gigi e suo marito, Hughes Bernard, conte de la Gatinais, il quale l’aveva conosciuto mentre studiava in Francia.
D: Ho letto che Hughes di Saint-Malo, Bretagna, per otto anni ufficiale nella Marina Militare francese, aveva all’inizio qualche conoscenza della materia e del campo
R: Sicuramente. Anche se la Bretagna non è un dipartimento vinicolo, ma appena sotto la penisola, nel dipartimento della Loira Atlantica, per essere precisi, lì si trova una produzione molto significativa di vino a base del melon de Bourgogne, il Muscadet de Sèvres et Maine, quasi nove mila ettari di vigneti, e la famiglia era coinvolta in questo mondo. Hughes, inoltre, aveva una cultura e un palato di notevole livello e la sua presenza e le sue idee erano di importanza fondamentale nella prima fase della rinnovata produzione del vino, a partire dall’anno 1977 . Rapitalà, il cui nome viene dalle parole Rabidh-Allah, il fiume di Allah, è il nome arabo del fiume che scorre fra i vigneti.
D: Sebbene non ancora assunto, può dirci qualcosa sul primo ventennio di vita dell’azienda? Puntava sulla bottiglia in un’epoca dominata in Sicilia dalle cisterne?
R: Si, è vero, Rapitalà puntava sulla bottiglia, sul vino che portava in etichetta il nome del produttore e all’epoca di questa decisione la proprietà era indubbiamente all’avanguardia sull’isola. C’erano le prime presse soffici Vaslin che davano incontestabilmente un mosto molto più fine rispetto a quello ottenuto da quelle precedenti in uso in Sicilia; e c’erano i serbatoi termo-controllati di acciaio inossidabile, essenziali in un clima come quello di Sicilia. Non c’è bisogno di sottolinearlo, se si mira a produrre vini freschi a fragranti. Qualità ovviamente che non contraddistinguevano le produzioni dell’epoca, sia di bianco che di rosso, che puntavano sull’alcool e sulla concentrazione, caratteristiche indispensabili per i vini da taglio. La Sicilia degli anni ’70 e ’80 aveva, rispetto alle produzioni centrali e settentrionali, indiscutibili vantaggi per quanto riguardava i costi e la gamma della Rapitalà era più che competitiva. Il risultato era un immediato e generalizzato successo commerciale. La casa già produceva un milione di bottiglie negli anni ’80 e operava in mercati importanti, non solo l’Italia ma pure Germania e Francia. L’appoggio immediato di Luigi Veronelli, che è diventato anche un grande amico di Gigi e Hughes, non guastava e durò nel tempo. L’unica foto che tengo nel mio ufficio infatti è quella scattata con Veronelli nei primi anni della mia collaborazione con l’azienda.
D: La viticoltura e l’enologia della parte occidentale della Sicilia, storicamente e tradizionalmente, sono sempre state basate sulle uve bianche e sul vino bianco. Anche Rapitalà ha seguito in questo solco?
R: No, l’azienda ha sempre creduto nella potenzialità pure delle uve rosse in questa zona della provincia di Palermo. La tradizione può essere una guida ma non deve diventare un limite, una specie di camicia di forza. Già negli anni ’80 le produzioni erano al 50% di vino rosso e al 50% del vino bianco e così sono rimaste. Il Nero d’Avola, sin dall’inizio, è sempre stato centrale alla proposta aziendale e il vino di questo vitigno è arrivato ora a 800 mila pezzi annuali. Per non parlare delle altre varietà a bacca rossa impiegate: perricone, fra le autoctone, pinot nero, syrah e cabernet fra le alloctone.
D: Cosa può dirci della viticoltura, come era stata impostata?
R: Nulla di particolarmente diverso, non c’è bisogno di impianti molto fitti con il clima dell’isola di Sicilia. Ci sono 3300 ceppi per ettaro: si riesce a maturare bene l’uva senza difficoltà, le viti sono potate a Guyot, un sistema molto classico. Forse era anche giusto per un’azienda che, pur essendo sicilianissima, sentiva per ragioni ovvie l’influenza della Francia.
D: Parlando della Francia, Rapitalà era fra le prime aziende isolane a dimostrare che, nonostante le grandi differenze di latitudine e, spesse volte, pure di suolo, clima e altitudine, le classiche varietà galliche potevano dare risultati interessanti e importanti. Questione di convinzione oppure semplicemente una sfida vinta?
R: Innanzitutto vorrei ricordare che è proprio questa varietà di suoli, microclimi, esposizioni e altitudini che rende, non dico semplice, ma possibile l’identificazione dei giusti siti e luoghi dove piantare questi vitigni. Il successo chiaramente non fu casuale bensì il risultato di un serio lavoro professionale di studio e preparazione. Nel caso di Rapitalà, siamo stati molto assistiti dalla collaborazione di Bruno Pastena, grande autorità della viticoltura siciliana, autore fra l’altro di libri importantissimi come il “Trattato di viticoltura italiana” e “La Civiltà della vite in Sicilia” e siamo rimasti molto soddisfatti del suo fattivo aiuto. Altro fattore significativo era la più che giustificata fiducia nelle proprie terre da parte dei produttori. Ma non insisterei più di tanto sulla internazionalità di queste produzioni. Ci sono vini che ricalcano modelli francesi come, ad esempio, il Gran Cru, uno Chardonnay che segue il classico modello borgognone di vinificazione impiegando i legni piccoli, e ci sono il Solinero e il Nadir, entrambi Syrah, varietà che ha dimostrato un ottimo adattamento a questa isola, in particolar modo alla zona di Camporeale. Ma stiamo parlando di produzioni limitate, 50 mila pezzi nel caso dello Chardonnay, meno di 30 mila in quello dei due rossi. Poco più del 2.5% della produzione globale di tre milioni di bottiglie. Per noi è altrettanto significativo e interessante l’impiego di queste uve francesi assieme alle tradizionali varietà siciliane. Sto parlando del Bouquet, Sauvignon e Viognier insieme con Grillo, Hugonis, Cabernet Sauvignon e Nero d’Avola e Nuhar, un blend di Pinot nero e Nero d’Avola. Per noi rappresentano qualcosa di diverso e molto valido. L’azienda tuttavia rimane fermamente ancorata nella propria realtà e dà la massima importanza alle uve storiche della Sicilia.
D: Questo impiego graduale e oculato di nuove varietà quando è iniziato, e con quali uve?
R: Nei primi anni ’90 con il Viognier e lo Chardonnay, il nostro Grand Cru. Esiste da 26 vendemmie e siamo stati ispirati a provare nella convinzione che in Sicilia, come in altre zone viticole di pregio nel mondo, si potessero fare ottimi vini bianchi di struttura e complessità con l’aiuto del rovere. Esempio ne era la Bianca di Valguarnera di Duca di Salaparuta, anche se in quel caso si trattava di Inzolia come base. Seguivano a ruota il Syrah e il Cabernet Sauvignon, poi altre uve a bacca rossa.
D: A questo punto siamo arrivati al suo ingresso in azienda. Può dirci – e non chiedo modestia perché sono quasi due decenni di attività che hanno sicuramente aiutato il costante miglioramento della qualità – quale è stato il suo contributo principale e su cosa ha focalizzato i propri sforzi?
R: Cercherò, almeno, di non essere immodesto. Ho dato la massima attenzione alla campagna e nella ultima fase stiamo gradualmente trasformando le nostre pratiche colturali con l’obiettivo di raggiungere una viticoltura completamente biologica. Cosa che, in Sicilia, con il nostro clima è fattibile anche con un’estensione vitata notevole benché qui, come altrove, ci voglia molto impegno e molta attenzione.
D: La produzione è di un notevole livello e la cantina deve esigere comunque molta attenzione…
R: Vero, ormai le nostre produzioni si sono consolidate su 3 milioni di bottiglie su 14.000 quintali di uve dei nostri vigneti; si aggiungono altri 14.000 quintali di uva acquistata da viticoltori della zona, che ovviamente seguiamo con la massima vigilanza, e l’equivalente di 6.000 quintali di vino acquistato. Un programma annuale che ci dà da fare e soprattutto da pensare e programmare.
D: Cambiamenti in cantina durante questo “quasi” ventennio?
R: Nulla di rivoluzionario, dopotutto i vini avevano già un loro mercato che li accoglieva con piacere. La ricerca di un’uva migliore chiaramente non poteva che darci una materia prima in grado aiutare la qualità complessiva. Lavoriamo con presse ad azoto, l’uva viene diraspata e il mosto passa per scambiatori per arrivare alla temperatura giusta per l’inizio della fermentazione.
Nel caso dell’uva destinata ai nostri Cru, invece, adoperiamo una pressatura a grappolo intero per ottenere un mosto più fine ed elegante. I vini bianchi ora fermentano tutti a temperature al di sopra di 14°, era giusto, per lasciare alle spalle la “tradizione” di vini bianchi un po’ pesanti e alcolici, retaggio dell’impiego come vini da taglio, puntare a temperature decisamente basse. Ma ora abbiamo trovato l’equilibrio desiderato per i mercati di qualità. C’era anche da mettere a punto l’impiego del rovere, cosa non ovvia in un’isola con pochissima tradizione nell’utilizzo del legno, fuorché per i vini liquorosi. Il fatto è che abbiamo iniziato in un’epoca in cui c’era una richiesta insistente di vini in cui l’impatto del rovere doveva essere piuttosto percettibile; forse non ha aiutato, ma credo che anche in questo caso abbiamo trovato un nuovo e giusto equilibrio. In cantina abbiamo attualmente 600 barrique e 12 botti.
D. Nuovi vini in cantiere o già realizzati?
R: Non sono nuovi vini ma sono proposte che hanno richiesto un certo periodo di tempo, fatica e sperimentazione da mettere al punto, sto parlando dei vari vini che, assemblando vitigni della tradizione e della innovazione, l’autoctono e l’internazionale, ci hanno obbligato ad un lavoro di prova e riprova. Anche annualmente, non ci sono né formule né ricette e chiaramente la materia di base cambia in ogni vendemmia.
In un anno fresco, ad esempio, il Pinot Nero potrebbe essere più fragrante e meno corposo, noi dobbiamo lavorare per trovare la giusta percentuale del Nero d’Avola da aggiungere. Stesso discorso, ma al contrario, per il Hugonis: in un millesimo caldo dobbiamo aggiustare la proporzione del Cabernet Sauvignon rispetto a quella, di nuovo, del Nero d’Avola. I vini, ovviamente, devono essere tanto siciliani quanto internazionali e alle volte centrare il bersaglio non è semplice. Ma chi la dura la vince. E, nel caso del Bouquet, abbiamo tre uve diverse da mettere insieme, compito non sempre senza complicazioni. Un nuovo vino che, invece, ci ha dato quasi subito molte soddisfazioni è il Nero d’Avola “Alto” che, come dice il nome, è prodotto con le uve delle parcelle più alte dei nostri vigneti. Mira ad una clientela, mi perdoni la ripetizione, di alto livello. La materia di base è di qualità notevole e il vino riceve un attento affinamento in rovere, sia in botti che in barrique. Non dico che abbiamo trovato subito la chiave, ma quando si parte da uve superiori il resto è in discesa. Siamo arrivati ormai a 20 mila bottiglie.
D: Nulla di nuovo sul frante del vino bianco?
R: Tutt’altro. Abbiamo avuto un importante programma di sviluppo del Grillo, vino del futuro, ma anche del presente. E’ probabilmente la varietà isolana dalla maggiore potenzialità qualitativa ed espressiva, un vitigno veramente bello che avevamo avuto fra le mani da generazioni senza capirlo appieno. Ma solo recentemente ci siamo accorti, grazie alla ricerca genetica, che si tratta di una varietà che incrocia Catarratto e Zibibbo, ossia il Moscato d’Alessandria. Abbiamo fatto un duro lavoro sul vitigno sia in vigna che in cantina e il mercato ci ha premiato, fra la ristorazione e il GDO vendiamo attualmente 230 mila bottiglie che hanno trovato un ottimo riscontro.
D: Dimentichiamo qualcosa?
R: C’è un’ultima bella notizia. Data l’importanza che l’azienda ha avuto nello sviluppo di un’immagine di qualità per il vino siciliano, è sempre stata la nostra ambizione essere al passo coi tempi, abbiamo costituito un nuovo polo produttivo sull’Etna che prossimamente darà i primi frutti. Al centro del progetto c’è, ovviamente, il Nerello Mascalese che sarà affinato in legni piccoli. Sarà il mercato giustamente che ci dirà se abbiamo azzeccato l’obiettivo, ma sono fiducioso. Ora et labora, come dicono i benedettini.
Tenuta Rapitalà
Contrada Rapitalà – 90043 Camporeale (PA)
Tel. +39 092437233
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