“Una gran signora, cui mostrarono la mappa dell’Australia, disse: «Che forma strana». Aggiunse poi, con aria di comprensione: «È che si tratta di un paese molto giovane». Il raccontino minimo – di Juan Louis Borges – proprio si adatta allo stupore degli enotecnici Redensdale pei vini di California, di cui tanto temo.
Giunge sul tavolo dei miei saggi, a rinfocolare speranze, la Malvasia delle Lipari cru Capo di Salina (Capo Faro, ndr) di Carlo Hauner. L’assaggio e benedico. Chi è mai costui? Fa rivivere, oltre le mie speranze, l’antico vino “perduto”: colore giallo ambrato, gioioso e lucente; bouquet di eccezionale ampiezza ed eleganza (sentori di miele di eucalipto, di mallo di noce e fiori di ligustro); sapore dolce con molto garbo, franco e suadente (gradevolissimo e lieve gusto di tamarindo); buon nerbo in stoffa vellutata e lunga; pieno carattere e razza. Cosi che ci sta bene, in chiusura, la chicca (settecentesca?) dell’abate Meli: «L’ambrosia degli Dei, che si decanta, / nun è che malvasia che si produci / da na viti, c’a Lipari si chianta». Vignaiolo: Carlo Hauner, 98050 Lingua di Salina, Isole Eolie, Messina. Non ha, benedetto, telefono”.
L’Espresso – La Bottiglia, di Luigi Veronelli
Il ritorno della Malvasia delle Lipari, un vino conosciuto, amato e commerciato per oltre tre secoli in tutta Europa, e sul quale esistono numerosi e interessanti documenti che ne comprovano le caratteristiche uniche, si deve a due persone. Una terza ne intuì l’enorme potenziale e, con sfortuna, volle cavalcarla per migliorare le sorti della collettività. Eppure qualcosa venne fuori lo stesso.
Come anticipato, il vino eoliano era scomparso tra dura povertà causata dalle malattie dell’uva, come la fillossera, e il dramma di due guerre mondiali. Tutte portarono ad una emigrazione massiccia. Forza produttiva e memoria erano svanite nel nulla confinando la Malvasia tra quei pochi che avevano resistito, esiliata ad un mero consumo familiare-casalingo.
La storia ci dice che per reinventare il “vino perduto”, partendo letteralmente da zero, ci vollero non uno ma due visionari, persone con la capacità di vivere di emozioni e infondere in essi valore materiale. Senza secondi fini o intenti di lucro. I loro nomi sono Carlo Hauner, prima di tutto, poi Luigi Veronelli, gastronomo, giornalista e ineguagliato comunicatore contemporaneo del vino. Che non ci fossero secondi fini ce lo fa capire tra le righe lo stesso Veronelli, in calce al suo scritto si legge: “Non ha, benedetto, telefono”. Contestualizzando nella metà degli anni ’70, e ancora i cellulari non esistevano, suona come una felice condanna mediatica.
Così però non fu e Hauner, lo sappiamo oggi con nitida chiarezza, vinse una sfida che non sapeva di avere accettato. Trattò il vino come un oggetto d’arte da salone d’esposizione, non come un cimelio storico. Nata nel mezzo dei colori dei suoi disegni e dei suoi dipinti, lei che ha i colori di una delle isole più belle al mondo, è oggi in giro per l’Italia e per il mondo.
Per tracciare alcuni importanti passaggi abbiamo intervistato Carlo Hauner Jr., figlio del fondatore Carlo, titolare dell’omonima azienda vinicola e presidente del Consorzio di Tutela della Malvasia delle Lipari. Il Malvasia Day 2019, avvenuto il 22 giugno sorso, è l’occasione perfetta per farlo.
D. Chi era Carlo Hauner?
R. Siamo bresciani di origine boema. Papà era architetto con studio a Brescia, designer di arredi, di mobili e artista. Amava le ceramiche, ancora oggi abbiamo una piccola fabbrichetta. Da giovane ha esposto alla Biennale. Per un periodo è stato in Brasile, io infatti sono nato lì. Siamo arrivati nelle Eolie nei primi anni ’60, io nel ’62, grazie ad un suo amico che lavorava con Folco Quilici e che conosceva le isole. Per vacanza.
D. Cosa ha trovato qui?
R. Non c’era turismo, non c’era imbottigliato di Malvasia, pochissimo comfort. Ma era tutto bellissimo. In quegli anni, ricordo, continuava l’abbandono verso l’Australia. Piano piano le vacanze estive sono diventate più lunghe, poi ci siamo trasferiti del tutto. Il vino era inizialmente marginale, lo affascinava, lui si era innamorato dell’isola, come luogo. Non aveva competenze specifiche. Quelle sono arrivate dopo, grazie ad un rapporto continuo con gli isolani e allo studio. A lui interessava il processo creativo, non quello tecnico. Non era un imprenditore nella pura accezione del termine.
D. Siamo sulle isole, l’azienda ha appezzamenti sono importanti
R. Non è stato facile e non lo sarebbe nemmeno oggi. La forte emigrazione ha portato migliaia di isolani in Australia e nelle Americhe. Papà ha messo insieme una ventina di ettari, oggi sedici inclusi i tre a Vulcano, in un non semplice lavoro di ricerca e di reperimento dei vecchi proprietari. Tutto costava molto poco, le case costavano quanto una 500…
D. La svolta quando arriva?
R. Tra il 1974 e il 1975 mio padre decide di andare al Vinitaly. Gli mancavano le grandi fiere. Andava al Salone del mobile di Milano, cercava un contatto con il pubblico e il Vinitaly era il luogo giusto. Capita che Veronelli si siede ed esplode il fenomeno Malvasia. Dopo qualche anno arriva il primo Tre Bicchieri nella guida ai Vini d’Italia di Gambero Rosso, anche quello è un passaggio importante. A quei tempi, siamo nel 1988, furono premiati “solo” 32 vini in tutta Italia, due in Sicilia: il Marsala Superiore, Vecchio Samperi di Marco De Bartoli e la nostra Malvasia delle Lipari Naturale 1985. Mio padre, per primo, fa anche un’altra cosa: mette i capperi nelle buste, i quali iniziano a viaggiare con il vino. Un vantaggio che per noi è stato importante. Il successo dei capperi di Salina è oggi noto.
D. Quando si diffonde sull’isola la cultura della Malvasia?
R. Il successo della cantina, con l’arrivo dei premi, trascina un po’ tutti. L’isola aveva le sue difficoltà: non c’era lavoro, non c’era edilizia, solo l’agricoltura aveva senso ma con una redditività incerta. Con mio padre, grazie alla Malvasia, un po’ tutti, chi per un motivo o per un altro, iniziano a lavorare. Tra le persone a lui vicine c’erano dei giovani, quelli che oggi conducono aziende affermate, tra questi Nino Caravaglio e Piero Colosi. Anche Francesco Fenech partì tra i primi. Parallelamente mio padre convince alcuni amici a comprare immobili qui a Salina, quasi dei ruderi, per poche lire. Il prezzo è quello di una utilitaria dell’epoca. Oggi, è chiaro, non è più così. Le altre isole avevano avuto più fortuna, Panarea con i milanesi e Stromboli grazie a importanti pellicole.
D. E la Cooperativa? So che l’allora sindaco di Malfa, Anna De Maria, provò a mettere assieme un gruppo di proprietari in cooperativa per ottenere maggiori vantaggi.
R. Si tratta di una vicenda che non ha lieto fine. L’idea era di avere dei finanziamenti, ma i proprietari non erano ancora pronti; per cui dopo le prime difficoltà, Anna De Maria – nella qualità di presidente della cooperativa – coinvolse mio padre. Era davvero un tipo tosto e geniale, per tanti versi, e mio padre cercò di lavorare per la causa e fare delle cose valide. Purtroppo era, come dicevo, un creativo, non un burocrate. Per cui, quando morì, la cooperativa si sfaldò e fallì, con notevoli disagi per i suoi membri. Mettere tutti i tasselli assieme è ancora oggi difficile. Tuttavia, da quella implosione che colpì anche noi, nacquero delle importanti realtà, delle splendide aziende che portano sviluppo su Salina.
D. Parliamo della DOC Malvasia delle Lipari. Con circa settanta ettari è una denominazione davvero piccola. Ci sono in Sicilia singole aziende molto più grandi.
R. La DOC è piccola, ma ha un fascino unico e va tutelata. Ci sono vigneti su Stromboli, su Vulcano, su Lipari e piccolissimi appezzamenti sulle altre isole, compresa Panarea. Stiamo facendo un po’ di fatica, ma un contributo importante sta arrivando dai “non” isolani che qui producono. Abbiamo affrontato gran parte degli adempimenti burocratici, siamo in contatto con il Ministero, c’è l’erga omnes, stiamo nominando il vigilatore per la tutela. Anche sugli aspetti della promozione stiamo ricevendo dei suggerimenti importanti. E’ un percorso in salita, ma i primi risultati arriveranno presto.
di Francesco Pensovecchio