Professione Sommelier, intervista a Tommaso Trio

 

Tommaso Trio, classe 1984, milazzese con la passione per il basso elettrico, per il vino e la parlantina facile, è l’esempio di un percorso professionale frastagliato ma protetto da buoni auspici. Intuito, giovialità e capacità di relazione non gli mancano, così come un pizzico di irriverente audacia e il coraggio di lasciare e cambiare tutto. Il vino, complice di imprese più ardite e rischiose, è diventato un compagno fedele e occasione per intraprendere la professione di sommelier. Da qualche mese, Tommaso è il responsabile di sala, sommelier e mixolgist di U’Papà, una nuova braceria & pizzeria il cui nome sarebbe piaciuto a Mario Puzo e Francis Ford Coppola. Del ristoratore/imprenditore Alessandro Midili, si trova a Monforte Marina, una frazione di Monforte San Giorgio a pochi chilometri da Milazzo. Tra le sue passate esperienze, Casa Grugno di Taormina, il ristorante Grassilli di Bologna e una stagione, l’ultima, il ristorante Balice di Milazzo di Manuela e Giacomo Caravello, un locale che merita il viaggio e che ne ha evidenziato un profilo professionale promettente, il tratto fresco e un carattere brioso. Tommaso ha partecipato alla prima edizione di #BYOB con Azienda Agricola Rallo. Lo abbiamo intervistato:

D. Tommaso, quando e come hai iniziato la professione di sommelier?
R. Ho iniziato nel 2006 a Casa Grugno di Enrico Briguglio. Lui era una persona straordinaria e il locale stellato. È stata una sfida. Provenivo da esperienze di piccola ristorazione. Ero ancora all’università, avevo poco più di ventidue anni e studiavo archeologia. A Taormina seguivo un lungo stage e contemporaneamente avevo deciso di trovare un lavoro per avere qualche soldo in tasca. Da alcuni amici che già lavoravano lì, oggi sono al Timeo, ricevetti una prima infarinatura. A Casa Grugno giravano le migliori bottiglie di Sicilia, quelle che dopo gli anni ‘90 erano considerate la punta di diamante dell’enologia siciliana. Poi, tanta Italia, Francia e Champagne. Mi appassionai immediatamente. Quello su cui mi focalizzai subito fu l’attenzione nella degustazione, nella tecnica di assaggio. Per imparare a fare questo lavoro non importa solo il numero delle bottiglie, o il blasone, ma anche la qualità dell’approccio al vino. In quegli anni ho bevuto tanti vini, ma ho anche cercato di impostare la degustazione da un punto di vista teorico.

D. Dopo Casa Grugno?
R. Andai a Bologna. Avevo una band musicale e suonavo il basso elettrico. Ero partito con grandi sogni di gloria, ma a un certo punto tornarono le necessità e il bisogno di lavorare. Contattai il Ristorante Grassilli, una bottega storica di cucina tipica bolognese a 50 metri dalle due torri (le torri degli Asinelli e della Garisenda, ndr). Il locale è gestito da Jacques Durussel, uno chef svizzero di scuola francese che fu cuoco personale di Liz Taylor e Richard Burton. Tra gli anni ’60 e ’90, Grassilli era il ritrovo di molte celebrità per la vicinanza con l’opera lirica. È un posto magico dove si tirava ancora la sfoglia per le tagliatelle e dove si fanno i ravioli a mano. Ma c’erano anche dei piatti internazionali, di impostazione francese, come il filetto alla Wellington o alla Rossini, le bistecche con la salsa bernese montata al momento, gnocchetti alla parigina e così via. Facevamo anche le crêpe Suzette alla fiamma davanti agli ospiti. La formazione del personale era una faccenda molto seria. Lì ho imparato la precisione e la gestione della sala, a calcolare con anticipo qualsiasi imprevisto e ad evitare inutili sprechi. Da Grassilli ho conosciuto i Lambrusco, i Gutturnio, le Malvasie, ma anche grandi classici dell’enologia italiana. Nel 2011, rientrato da Bologna, ho voluto approfondire il vino da un punto di vista teorico e mi sono iscritto ai corsi di sommelier qui a Milazzo. Per completare tutti i corsi ci ho messo un bel po’ di tempo, ma non per colpa mia: il sistema, così com’è organizzato adesso, ha delle falle temporali lunghe. Non si riesce mai a raggiungere il numero minimo di corsisti. All’inizio è facile, alla fine quasi impossibile partecipare alle lezioni, non partono mai.

D. Nell’estate del 2019 hai lavorato da Balice di Giacomo Caravello
R. Si. Con Giacomo Caravello, al ristorante Balice, abbiamo sviluppato subito un bel lavoro. L’apertura è avvenuta nell’estate 2019 e abbiamo fatto una splendida stagione. La carta ha delle chicche molto interessanti. Poi, per ragioni personali e di orari ho dovuto interrompere.

D. Il passo successivo?
R. U’Papà, un locale vicino Milazzo, una braceria-pizzeria. Il paesaggio è bucolico, in mezzo alla campagna, ad agrumeti; anche l’immobile ha un certo fascino, forse perché costruito con mattoni rossi. Oltre questo, un aspetto importante che per me è indispensabile, al di là del discorso economico, è riuscire a creare il giusto clima con la clientela. La sensazione di libertà e fiducia deve essere reciproca, ma in un certo senso è lo stesso vino a rendere questo possibile, grazie alla sua natura conviviale.

D. Come fare una carta vini? Cosa scegli?
R. U’Papà ha aperto da poco e non ha ancora una carta definita. La creazione della carta dipende da cosa vuole fare il sommelier, da quale obiettivo si prefigge. In altre parole, la carta deve essere costruita sul tipo di clientela che si vuole ottenere. Vedremo.

D. Spiegati meglio
R. Negli ultimi cinque anni c’è stata una grande crescita del pubblico e la figura del sommelier ha iniziato ad essere più richiesta. Prima il sommelier era “…quello che ti vuole propinare qualcosa…“. Adesso, invece, è una figura indipendente dal resto del servizio. Il range di spesa di una bottiglia qui in Sicilia oscilla tra i 20 e i 40 euro, ma è già un bel passo in avanti rispetto al passato. Prima, al ristorante, si consumava del vino sfuso, della casa o peggio ancora “casereccio”. Oggi, salvo qualche rara eccezione, questa opzione è stata abbandonata; però l’idea, il ricordo, è rimasto. Infatti, per reazione, è esploso il tema dei vini cosiddetti “naturali”, o – per chi non gradisce il termine – meno convenzionali. Dunque, li propongo come alternativa ai vini della casa.

D. Lo capiscono tutti?
R. No. Per il semplice fatto che per questo tipo di scelta, o meglio, per amare questo tipo di gusto ci vuole una educazione specifica. Quindi non è per tutti. Però la sensibilità del pubblico sta aumentando e se c’è il riconoscimento per la figura professionale del sommelier, allora scattano le domande. Per me è una gran piacere.

D. Ma non sono pochi quelli che vogliono investire in un sommelier?
R. Sempre di più. Questo ruolo non è più solo appannaggio del ristorantone stellato, ma sta entrando anche nella ristorazione media, meno blasonata, in tutti i locali, persino nelle pizzerie. Quindi un pubblico sempre più grande cerca consapevolezza. D’altra parte, dove c’è buon cibo dovrebbe esserci anche una buona bottiglia. Anche con dei semplicissimi maccheroni alla Norma.

D. Con un vino del territorio?
R. Soprattutto. Oggi il vino siciliano si vende molto all’estero e le nostre aziende si crogiolano dietro al fatto che riescono a vendere bene il vino all’estero. Ma quando nuove aree produttive entreranno sui mercati, penso a Cina e India, allora saranno grandi problemi e noi avremo perso terreno proprio a casa, lì dove il vino si dovrebbe vendere più agevolmente.

D. Un accenno alla produzione vinicola del messinese
R. Un po’ in affanno, credo stia pagando un prezzo alto per eventi sfavorevoli accaduti poco più di 100 anni, dalla fillossera al terremoto di Messina del 1908 che ha distrutto non solo gli edifici, ma anche l’imprenditoria messinese. Noi siamo a Milazzo: poco più di 60 anni fa le vigne partivano dai Peloritani e arrivavano sino al mare, dove oggi c’è la raffineria. Contemporaneamente, sono subentrate scelte discutibili nella selezione dei vitigni. Questa è una zona più piovosa rispetto ad altre della Sicilia. Il vitigno locale, il Nocera, è stato man mano sostituito con il Nero d’Avola; forse per questioni di marketing, di produttività, o anche di grado. Lo stesso dicasi per i bianchi. Qui c’erano Insolia e Catarratto, mentre adesso si preferisce il Grillo. È un ottimo vitigno, con delle piacevoli note agrumate, però non rappresenta quella che è la tradizione messinese. Ma nel disciplinare è prevista una quota singola minima del 10% sino al 45%. Quindi per me è da rivedere.

D. Avevi accennato prima al vino sfuso. Ho capito bene che proponi i vini naturali come “vino della casa”?
R. È un escamotage. Introduco la complessità del vino naturale in questo modo. Ci sono molte cose da capire, non ultimo il problema dei solfiti. Su questo tema c’è molta diffidenza, disagio, ed esistono molti equivoci. D’altra parte, nel confronto con i vini convenzionali, chi ha memoria ricorda che i vecchi sfusi della casa hanno punti in comune con i naturali. Mentre, tra i convenzionali, nel confronto di vitigni diversi, ad esempio Cabernet, Sangiovese, Nero d’Avola, ci sono troppi punti in comune. La situazione è questa e non entro nel merito.

D. C’è un aspetto sul quale ti soffermi più frequentemente?
R. Si, la vita dei moderni vigneron. Sembrano delle rock-star, amati e osannati dal loro pubblico di appassionati, molto spesso al centro della comunicazione e dei media. Trovo questo un aspetto interessante da un punto di vista sociale e personale, forse perché ho sublimato la mia passione per il rock in questi dettagli.

 

di Francesco Pensovecchio


contatti Tommaso Trio, zoastom@gmail.com

 

in collaborazione con Azienda Agricola Rallo