Antonio Corsano non è solo l’head-sommelier di Maison Bocum di Palermo, winebar & cocktail bar tra i più celebrati d’Italia per Gambero Rosso, ma anche un insider nel mondo della musica lirica e del Jazz. Infatti, dopo essersi diplomato al Conservatorio di Milano, ha trascorso come artista lirico sei anni alla Scala di Milano, ed è – ancora attualmente – nelle liste del coro del Teatro La Fenice di Venezia e del Teatro Massimo di Palermo. Le sue due più grandi passioni sono, ed eccoci al punto, oltre la lirica, il vino e soprattutto i vini naturali. Il suo approccio al vino è differente, intendendo con ciò la lezioncina frontale nelle quali ananas e pesca gialla convivono con erbette balsamiche delle coste basso-tirreniche. Il suo suggerimento è ampio, intimo, a tratti romantico. In attesa della riapertura di Bocum lavora presso “Libertà”, presso Piazza Alberico Gentili, angolo via Libertà. Lo abbiamo intervistato:
D. Antonio, come e quanto inizia la tua personale passione per il vino?
R. Presto. Si è scatenata a Milano, era 1997. Ho iniziato a bere senza un ordine preciso, senza parametri o particolari conoscenze. Nel tempo mi sono reso conto che la mia era una vera e propria passione. Si consideri che in casa mia si faceva una Malvasia bianca, presso il palmento di mio nonno, stavamo a Gallipoli vicino Lecce. In cantina e in vigneto non si usava nulla, oggi di direbbe un biodinamico “spinto”. Il nonno lavorava in una cantina del 1920, con botti e damigiane, era il vino di casa e per me un divertimento.
D. Di cosa ci si rende conto in queste condizioni?
R. Che il vino è una passione e presto questo si espande verso altre espressioni. Infatti, iniziai a cercare altri vini. Cercavo di scoprire tutti i dettagli di quello che bevevo, suoli, territori, vinificazioni, tutto, ad esempio ad un certo punto mi appassionò il Ripasso della Valpolicella e l’Amarone. Ne comparavo di varie tipologie. Non avevo una conoscenza teorica approfondita, eppure iniziai a manifestare le mie preferenze.
D. e la musica?
R. La passione per la musica ce l’avevo già all’età di 5 anni e me la sono trascinata per tutte le scuole. Mia mamma, scriveva commedie per il teatro. Avevo anche molte cassette e un mangianastri che facevo lavorare incessantemente. Poi al liceo ho iniziato a cantare una piccola band. La prima audizione la vinsi nel 2006, avevo 25 anni, arrivai primo. Ero il corista basso più giovane dell’ultimo ventennio. Rimasi alla Scala sino al 2011, più altri cinque in tournée in giro per il mondo.
D. La Sicilia?
R. A Palermo, arrivai dopo Genova, dovevo restare solo un mese. Rimasi tre anni. La passione del vino, intesa professionalmente, è arrivata qui. Ma devi sapere che gli artisti dei teatri, soprattutto quelli del coro, sono degli eccellenti bevitori. Non ho mai capito il perché. In tutti e nove i teatri dove ho lavorato si beveva sempre vino. Soprattutto alla Scala. Di Tolosa, ero in tournee in Francia, ricordo che andavo nelle enoteche cercando bottiglie interessanti. Poi, L’attenzione sul vino si è spostata sulla Franciacorta, allo Champagne e ad altri vini.
D. Chi ti ha condotto al vino?
R. Non a penso ad una persona in particolare. La crescita dipende da noi stessi. Ad esempio, pensando alla mia crescita artistico-musicale, ho lavorato con Zeffirelli e Morricone, e da loro ho appreso molte cose vedendoli lavorare direttamente. Lo stesso nel vino. Ascoltavo, ascoltavo tantissimo, ero – scusa il gioco di parole – una “spugna”. Ho messo assieme molte informazioni da tante fonti. Tra queste c’era FIS, la Fondazione Sommelier, feci dei corsi e misi molti tasselli in ordine. L’inclinazione verso i naturali, poi, è stata fortuita ed è arrivata con Bocum e Gagini. Qui c’erano delle chicche davvero speciali e, pur non comprendendo a fondo l’argomento, capivo che mi piaceva questo approccio. Le scelte di Bocum erano già chiare, ma ancora inespresse. Di lì a poco diventò l’obiettivo. Mi trovai coinvolto pienamente nel progetto: fui convocato da Franco Virga e da un giorno all’altro ci impegnammo a capofitto per trovare delle etichette interessanti. Poi, incontrai Aldo Viola. Per me fu importante, lo sommergevo di domande e tutto quello che avevo fatto in cantina con mio nonno mi tornò estremamente utile.
D. Com’era l’attività del Bocum? Prima del Covid-19?
R. Bocum, sino a tre mesi fa, aveva ritmi pressanti. Il locale era sempre pieno, sold-out, di questi l’80% erano turisti, tra nord Italia ed estero. Molti americani. La sua crescita è diventata esponenziale in poco tempo, anche grazie al lavoro fatto da Franco Virga con la Stampa e in particolare sui vini naturali. La cantina del locale ha fatto dei progressi molto rilevanti, con tante nuove etichette. Bocum è una unicità, un punto di ritrovo di un pubblico di appassionati che si trovano a Palermo. Ad esempio, durante l’evento NOT, a gennaio, tutti i produttori d’Italia e tutti i appassionati di tutta Italia erano qui da noi.
D. Il vino “naturale” esclude gli altri? Tu cosa pensi?
R. Qui ci dobbiamo intendere. Io ho scelto il vino e l’uva si vinifica – com’è noto – in una maniera. Alcuni lo fanno bene, altri meno, ma quello è. Senza pregiudizi e senza paletti, mi piacerebbe arrivare al punto di non dover più parlare di vino “naturale” o “convenzionale”. Non ha senso. Vorrei parlare di vino e basta. Infatti, non sono nemmeno d’accordo con i disciplinari, perché il vino dovrebbe restare una espressione libera, non sembrare tutto uguale o codificato da regole. Quello che vorrei è, casomai, che la retroetichetta dichiarasse tutto quello che contiene. Ci sono dei vini non naturali che mi piacciono moltissimo, ad esempio il Fiano o il Greco di Tufo di Pietracupa. Quindi la scelta dipende dalla responsabilità del produttore. Certo, i vini industriali, quelli che contengono decine di additivi di sintesi, non sono i miei. Se produci milioni di bottiglie non puoi fare a meno di modificare o correggere. L’elemento uomo che si trova in vigna e che interagisce con essa è determinante. Sposo questa filosofia.
D. Un’opinione sulla sala, sui sommelier e sugli chef
R. Domanda complessa. Chi è in sala deve avere delle qualità speciali, dai ruoli apicali sino all’ultimo cameriere. Accogliere ogni giorno centinaia di persone diverse, con stati d’animo differenti, non è semplice, vanno accolti tutti con lo stesso entusiasmo. Per questo è necessaria tanta psicologia, essere capaci di accogliere indipendentemente dalla estrazione, dalla educazione, dalla capacità o voglia di spesa, dall’umore, qui non si tratta di portare solo piatti. Chi è in sala è un attore, che deve poter recitare molti ruoli. Per quanto riguarda i sommelier, intendendo per sommelier colui che spiega se un vino sa di pera, mela o banana, ebbene, credo che questo tipo di figura sia morta. E francamente lo spero, perché quello che si deve fare è seguire le persone con sentimento. Con i miei clienti abituali, ad esempio, ho instaurato questo tipo di approccio: loro mi raccontano come si sentono, il loro stato d’animo, quindi se sono felici, arrabbiati, tranquilli, se vogliono festeggiare e così via, e io scelgo il vino adatto. Gli chef, invece, dovrebbero divertirsi di più e fare meno le star. I Maradona della cucina servono a poco. Quello che conta davvero in un locale è l’immagine d’insieme. Non sto contestando la capacità di elaborare una materia prima straordinaria e renderla unica, sto semplicemente dicendo che dobbiamo prendere tutti – dai grandi ai piccoli professionisti – un grande respiro e lavorare insieme per lo stesso obiettivo. Toglierci da dosso questo arrogante senso di conoscenza e comprendere intimamente il senso dell’accoglienza. Adesso più che mai. Capisco bene il senso di protagonismo, lo conosco, stavo di fronte ad una platea di tremila persone e questo non me lo deve togliere nessuno, anche io, in fondo, sono una primadonna. Ma adesso siamo di fronte ad una situazione nuova che dobbiamo affrontare con delicatezza.
D. Quindi cosa succederà? Qual è la tua previsione?
R. Difficile dirlo. Nel post Covid-19, nei nostri locali, potremmo trovarci di fronte a persone che sino a ieri avevano redditi cospicui e che in questi ultimi tre mesi, ben che vada, hanno ricevuto 600 euro, forse. Gente che, con difficoltà, ha dovuto condurre una famiglia attraverso una situazione tremenda, e che avrebbe semplicemente voglia di un abbraccio. Il cosiddetto “ceto medio”, che prima viveva bene, adesso ne è uscito devastato. Quindi, vero è che le persone sono finalmente tornate a respirare, ma è altrettanto vero che hanno ancora paura. Voglio dire, le conseguenze sono economiche, ma anche psicologiche, anche per noi stessi. In sintesi, la voglia di evasione è tanta, ma non sappiamo ancora come comportarci. Per quanto detto, ritengo che l’afflusso nei locali sarà in una prima fase molto limitato, in parte per capacità di spesa e in parte per paura.
D. Come pensi reagirà il pubblico? Torneranno a bere al ristorante? E se si, cosa?
R. Le persone reagiranno, respireranno di nuovo e torneranno al ristorante. Per quanto riguarda il vino, le preferenze non cambieranno molto. Quello che cambierà, secondo me, sarà il tipo di ristorazione scelta. Credo che le preferenze si sposteranno verso la semplicità, un ritorno più deciso verso le materie prime. Più integre e naturali sono, più grande sarà il successo. Se ti ricordi bene, già durante il primo mese di lockdown, la farina e il lievito diventarono introvabili. Segno che le persone avevano voglia di agire in autonomia, senza intermediari, e volevano fare pane e dolci in casa. La conseguenza è che, dopo questi tre mesi, le persone hanno difficoltà a mangiare un mottino preconfezionato perché sentono la differenza. E poi si seguirà più la stagionalità.
D. Una riflessione sul tuo lavoro
R. Trovo continuità, fluidità, tra lavoro e passione. Le due cose si fondono. Provo tanto amore per le persone che incontro e che hanno a che fare con terra e agricoltura. Così come accade per me nella musica. Smetterò di fare questi mestiere quando diventerà un “lavoro”.
D. Quindi continuerai!
R. Si (ride, ndr), in realtà ho anche voglia di tornare al teatro, ritrovarmi sul palcoscenico. Ci sono stato su per 19 anni, contro 3 da sommelier, comprenderai bene che la mia vita è li su. Mi manca la percezione della voce, mi manca lo sguardo del direttore che attende una mia nota, mi manca il pubblico. Tutto questo, al momento, è sostituito e accade attraverso il calice.
D. La tua opera preferita?
R. Da un punto di vista corale, della voce, il mio artista preferito è Verdi. La Messa da Requiem è splendida, un capolavoro assoluto. Lì il coro si esprime appieno, con potenza, eleganza e tecnica. Per il resto il Ballo in Maschera, sempre di Verdi, il Don Giovanni di Mozart e il Lohengrin di Wagner. Ma anche Rachmaninoff, penso al concerto nr. 2 per pianoforte e orchestra.
di Francesco Pensovecchio