Nonostante sia il classico “uomo che non ha bisogno di presentazioni”, Riccardo Cotarella sarà comunque presentato qui: presidente dell’Associazione Italiana Enologi e co-presidente dell’Unione Internazionale degli Enologi, si diplomò a Conegliano nel 1968, anno della contestazione. Contestò poco all’epoca fuorché il padre: non voleva andare a studiare questa scienza, ma dopo qualche giornata estiva in campo con la zappa in mano diede subito ragione al genitore e partì per il Veneto. Il primo lavoro fu con il Conte Vassali, produttore di Orvieto di una certa dimensione, ma il suo lavoro non su fermò con le uve bianche della zona, coloro con una buona memoria si ricorderanno senza’altro gli ottimi Cabernet Sauvignon di fine anni Ottanta e degli anni Novanta di questa casa. Optò per la libera professione nel 1981 e da allora la carriera è consistita di una serie di successi, a volte trionfali, anche in numerose zone con uve poco (o spesso per nulla) conosciute all’epoca. Da più di tre lustri i suoi contatti con la Sicilia sono stati fitti e ricchi di apprezzamenti e riconoscimenti.
D. Un professionista la cui carriera comprende più di quattro decenni di lavoro ha ovviamente visto cambiamenti e trasformazioni molto radicali in campo vitivinicolo. Cosa rappresentava la Sicilia nei primi anni di lavoro e che conoscenze avevi della viticoltura e dei vini?
R. Non credo sia necessario dire che poco vino siciliano veniva imbottigliato negli anni Settanta e Ottanta e all’epoca non avevo collaborazioni di alcun tipo con aziende isolane. Le produzioni locali miravano principalmente ai mercati per il vino da taglio, che partiva per varie destinazioni (non solo italiche, la Francia era pure una destinazione molto importante). I quantitativi erano impressionanti, non si trattava solo di cisterne su gomme, ma addirittura di navi intere.
D. Questi vini davano indicazioni di qualche tipo sulle caratteristiche dei vitigni e delle diverse zone di produzione?
R. A dire il vero non si ragionava in quei termini all’epoca, la materia a disposizione era il classico vino destinato ad “aiutare” altri più “deboli”, dunque c’erano tre esigenze principali: colore, alcool e tannini. Nel caso della materia a base di Nero d’Avola, sicuramente la parte maggiore dell’offerta, c’era il vantaggio supplementare di una buona acidità, non sempre presente in roba alternativa dal Meridione, anzi.
D. Quando è avvenuto un approccio diretto, cioè una collaborazione con una casa produttrice in cui ti occupavi della impostazione e realizzazione dei vini?
R. Nel 1996 quando sono stato contattato dalla società agricola Morgante di Grotte (Ag), anche se le prime produzioni curate da me e poi imbottigliate erano della vendemmia 1998. Ero privo di conoscenze del Nero d’Avola e per me, come per tutti, ci vuole tempo per raggiungere una minima confidenza con le uve e con le caratteristiche pedoclimatiche delle singole aziende. Nel caso specifico, la Morgante coltivava e lavorava esclusivamente il Nero d’Avola e continua tuttora a farlo.
D. Cosa ha imparato riguarda a questo vitigno, così importante per la Sicilia (e non solo)?
R. A quell’epoca in Italia – e non solo – si cercava potenza e struttura, a volte in modo forzato e ho capito subito, anche in base ai dati analitici, che certe forzature non potevano funzionare, il Nero d’Avola non è ricco in polifenoli e una buona parte di questo patrimonio consiste tuttavia in antociani, non tannini. Alla Morgante, dunque, riusciamo a fare un vino sicuramente di struttura e importanza ma è una selezione realizzata con le uve di una singola parcella, non è e non può essere un modello generalizzato o generalizzabile neanche per l’azienda stessa. Al contrario, spingendo le estrazioni durante le fermentazioni si rischia di esagerare quel sentore di smalto che può caratterizzare l’uva e, quando eccessivo, diventa fastidioso.
D. Il ruolo del legno nella lavorazione di vini a base di Nero d’Avola?
R. Stesso discorso, bisogna stare molto attenti, non è detto che la presenza del legno nell’affinamento migliori il risultato, al contrario può benissimo nel caso del Nero d’Avola intaccare il frutto e la piacevolezza di beva che sono i pregi principali della varietà.
D. Ha avuto la possibilità di occuparti del vitigno altrove in questa prima fase della tua esperienza in Sicilia?
R. Sì, ho avuto una collaborazione con l’azienda Foraci di Mazara del Vallo, situazione geografica e pedoclimatica totalmente diversa, le vigne erano nella parte più sudoccidentale dell’isola, area dotata di microclima e suoli che nulla avevano a che fare con l’agrigentino dove è sita la Morgante. Così come l’altitudine, bassa, e il Nero d’Avola che si produceva era, se vogliamo, più immediato, più fruttato, sicuramente di minore struttura e corpo, un bel vino da bere giovane ma sprovvisto – e dico fortunatamente – di ambizioni velleitarie. La zona, storicamente, ha sempre prodotto uva bianca e continua a farlo oggi, la provincia di Trapani, fra l’altro, per decenni durante il periodo postbellico, è stata la più vitata d’Italia, retaggio dell’importanza di cui godeva una volta il Marsala.
D. In quel momento, e anche durante il primo decennio del nuovo millennio, molti produttori puntavano sui classici “vitigni internazionali”, e impianti di queste varietà si trovavano dappertutto in Sicilia nei più disparati luoghi, in alto e in basso, in ogni tipo di suolo e microclima possibile e immaginabile. Ha avuto l’occasione di lavorare con queste uve, ovviamente conosciutissime ma non in queste latitudini?
R. Certo, e sovente con risultati non solo confortanti ma addirittura molto incoraggianti e convincenti. Ho avuto una bella collaborazione con un’azienda un po’ fuori mano, o almeno fuori dalle zone più vitate e maggiormente conosciute della Sicilia, la Abbazia di Santa Anastasia di Castelbuono. La tenuta si trova più o meno a metà strada fra Palermo e Messina, non lontano da Cefalù nell’estremo lembo orientale della provincia di Palermo. Se volessimo parlare di zone siamo nella Madonie, ma non c’era molto viticoltura nei dintorni e l’azienda è stata impostata in un momento in cui c’era un interesse molto condiviso nei vitigni internazionali e una grande fiducia nelle possibilità di risultati importanti in Sicilia con queste uve. C’erano pure varietà autoctone all’Abbazia di Santa Anastasia, e con le attuali tendenze del mercato ora si dà molta attenzione anche ai vini a base di Grillo e Nero d’Avola, ma io sono rimasto molto soddisfatto degli Chardonnay e dei Cabernet Sauvignon che abbiamo realizzato. Per me l’enologia è e deve essere scienza applicata, con la teoria e la ideologia si va poco lontano, è il nostro preciso compito cercare di capire le condizioni specifiche in cui operiamo e cercare di trarre il meglio dalle possibilità offerte. Oltre ad essere un’azienda di grande bellezza paesaggistica, l’Abbazia di Santa Anastasia godeva di una collocazione geografica molto favorevole, in collina con altitudini molto significative e con una notevole vicinanza al mare, due fattori che garantivano una bella escursione termica e la possibilità di allungare il ciclo vegetativo e vendemmiare con il giusto ritardo, prima di eccessi di maturazione aromatica e accumulazione zuccherina. Una possibilità di fragranza e di eleganza, in poche parole, obbiettivi principali. In quel momento erano decisamente di moda i vini australiani e californiani e molto credevano che quello stile rappresentasse il futuro della Sicilia. Ma l’isola non ha mai fatto una viticoltura irrigua e la varietà di terreni, altitudini e suoli la rendono decisamente diversa da altre realtà viticola alle quali viene comparata come l’Australia e la California. Le “bombe” di alcool e legno di certe vini del Nuovo Mondo alla lunga si sono dimostrate un vicolo cieco o almeno una strada da non percorrere. Mi hanno detto che un gruppo di importanti produttori e enologi francesi, in Sicilia durante una gita sponsorizzata da una delle maggiori tonnellerie francesi come viaggio premio, hanno assaggiato e apprezzato il Litra, il Cabernet della casa, e la cosa ovviamente non poteva che farmi molto piacere.
D. Alla fine, però, le collaborazioni più recenti hanno visto un ritorno alle zone classiche e, soprattutto, alle varietà indigene, dimostrando nuove potenzialità di alta qualità e decise personalità nei nuovi vini.
R. Questo è indubbio, anche perché il mercato in questo momento richiede vini con una forte impronta territoriale, cosa impossibile senza un lavoro importante sulla varietà che hanno sempre caratterizzato le diverse regioni italiane. E anche in quanto questi vitigni sinora hanno dato qualcosa di veramente espressivo solo in Italia, i tentativi di trapiantare le diverse uve maggiori dell’Italia in altre latitudini, se non possiamo parlare di un fallimento, sicuramente non hanno dato nulla di notevole e ispirante, mentre chi pianta e coltiva le solite varietà “internazionali” si trova in concorrenza – spesso spietata e a prezzi impossibili e impensabili per una viticoltura esercitata in un paese industrializzato con i suoi costi relativi – con tutti. Una strada tutto in salita commercialmente.
Devo dire, però, che in uno dei progetti più recenti, il Baglio di Cristo di Campobello che si trova nella parte orientale della provincia di Agrigento, sono piuttosto contento del Syrah che siamo riusciti a realizzare. Il maggiore sforzo, va da sé, viene dedicato però al Nero d’Avola e al Grillo, che sono e devono essere i vini di riferimento aziendali, e ho favorito questa ultima varietà a scapito dello Chardonnay: quando un vitigno autoctono trova un habitat ideale per la sua coltivazione e si pratica un’enologia attenta e scrupolosa si ottengono vini che non possono che essere la massima espressione di un territorio. Non mi hanno sorpreso le potenzialità che ho trovato nell’agrigentino ma devo confessare che i vini a base di Grillo, quelli sì, erano un po’ inattesi e molto convincenti.
D. Cosa le ha sorpreso nel caso del Grillo?
R. Credo che non sia stato solo io ma anche molti colleghi fra produttori e tecnici a rimanere, se non basiti, molto gratificati da questi vini anche perché fino a poco tempo fa i vini bianchi siciliani meglio conosciuti erano prodotti o con Inzolia o con Catarratto, mentre il Grillo non solo era coltivato principalmente nella provincia di Trapani ma era destinato quasi esclusivamente alla produzione di Marsala. Non c’era molto Grillo in bottiglia, non era un vino su cui le varie case puntavano e, in assenza di validi esemplari realizzati altrove, le idee sul carattere dell’uva e sui luoghi più vocati per coltivarla erano tutt’altro che chiare. Ma, ripeto, nei posti giusti, coltivata e vinificata a regola d’arte, questa varietà è capace di dare vini eleganti ma di corpo e sostanza decisi, dotati inoltre con una gamma aromatica ampia e complessa. Siamo solo agli inizi, ma se il vitigno in questo momento viene piantato con maggiore frequenza e con aspettative molto più alte ci sarà pure una ragione.
D. Conclusioni sui risultati ottenuti in questo nuovo progetto?
R. Beh, quando arrivano i successi nel nostro campo c’è sempre una concomitanza di fattori: per quanto riguarda questa azienda, Baglio di Cristo di Campobello, si tratta di una zona calda ma in altitudine, quindi buone escursioni termiche, suoli molto adatti (calcarei e gessosi che indubbiamente sono un elemento importante nel caso del Grillo) e una vicinanza al mare che porta una ventilazione costante e significativa. Con questi vantaggi già in mano tocca a noi lavorare bene in vigna e cantina per meglio sfruttare ciò che la natura ci ha regalato.
D. Come diversi colleghi piuttosto rinomati, da qualche anno stai lavorando sull’Etna. Sebbene sia un po’ presto, è arrivato a qualche conclusione sui vini e sulle uve che sono vinificate in zona?
R. Sono sempre più dell’idea che l’Etna sia un’isola nell’isola, qualcosa di diverso rispetto al resto della Sicilia. Ce lo dice anche la storia vinicola siciliana: i vini prodotti sulla montagna erano regolarmente imbottigliati in un’epoca in cui la pratica era abbastanza insolita e ci sono anche case con una certa storia – non sto parlando di produttori di vini da aperitivo, da fine pasto o liquorosi, una realtà a sé – alle spalle. Il suolo, ovviamente a base di eruzioni vulcaniche, è molo diverso non solo rispetto al resto dell’isola ma anche da la stragrande maggioranza di aree isolane, italiane o persino mondiali, mentre una gran parte dei vini rossi etnei più blasonati sono fatti con uve coltivate in vigneti e parcelle esposti al nord spesso ad altitudini di 700, 800 o addirittura 900 metri s.l.m. Altro che diversità!
D. Le vendemmie sinora sono state poche, è arrivato a qualche conclusione sulla vinificazione di queste uve?
R. Utilizzerei il singolare in questo caso, sinora ho lavorato solo con il Nerello Mascalese, che ritengo la grande varietà etnea, scelta aziendale, preferisco non pronunciarmi sugli altri vitigni che si ritrovano sulle piagge di questa montagna. Arrivando digiuno di esperienza diretta nella zona e con il Nerello Mascalese ho dovuto trarre le mie conclusioni dalle prime annate, ma ho capito subito che questa varietà non è per nulla semplice, che bisogna spingere molto le maturazioni per ottenere risultati convincenti, fortunatamente i rischi di sovramaturazione sono minori in questa zona vista la freschezza del clima a queste altitudini a metà ottobre. E che il contatto con le bucce durante le fermentazioni è di un’importanza critica, il rischio di tannini amari è sempre presente. I pregi principali del vino che cerco di fare sull’Etna sono un ventaglio di aromi molto largo e complesso e una finezza tattile che mette in risalto le doti di tannini fitti ma levigati del vitigno. Estrazioni spinte possono compromettere l’ottenimento di questi pregi, quindi bisogna stare molto attenti. Intanto, chi ha un’immagine del vino rosso siciliano come sempre qualcosa di piuttosto caldo, alcolico e profondo di colore non sceglierà sicuramente i vini dell’Etna, che esprimono una nobile austerità che contraddistingue molti dei grandi vini del mondo. Ma sono vini per intenditori, non per coloro che vogliono vini di impatto che mirano ad impressionare subito.
D. Conclusioni generali?
R. Niente al momento, ma visti i progressi delle ultime decadi credo che possiamo essere molto orgogliosi dei traguardi già raggiunti.
di Daniel Thomases