Sicilia, capitali esteri e vitigni internazionali. Il futuro è oggi. Intervista a Laurent Bernard De La Gatinais

 

La Sicilia è da tempo oggetto di attenzione da parte di investitori esteri. Già da alcuni decenni ha ottenuto importanti risultati nel settore del turismo, ma più recentemente è il settore agricolo a riscuotere maggiore attenzione. È notizia di poco più di un anno fa (leggi qui) della nascita di una joint venture dal nome Serra Ferdinandea tra Oddo Vins & Domains, un’azienda francese con cantine in tutto il mondo, da Sancerre, alla Spagna, al Sud Africa e che include la distribuzione Diva Bordeaux, e la famiglia Planeta.

Abbiamo voluto intervistare Laurent Bernard De La Gatinais, presidente della associazione di viticoltori Assovini Sicilia per conoscere il suo punto di vista.

D. Da francese, cosa ne pensi di questa avventura imprenditoriale tra Oddo Vins e Planeta?
R. Da francese, sono ben contento che dei francesi investano in Sicilia, soprattutto se non parliamo di fondi di investimento, ma di persone che operano nel vino e nel mondo agricolo. Quindi fuori da logiche di rating trimestrale, ma iniziative che hanno come obiettivo la costruzione cose belle, sostenibili, buone, con un interesse per il territorio e che portano ricchezza reale. Sono molto contento che Alessio Planeta abbia aderito a questa scommessa imprenditoriale.

D. In quest’ottica, la Sicilia è cambiata negli ultimi anni?
R. Direi che è cambiata molto, soprattutto il panorama vinicolo. Se pensiamo che io stesso nel 1999 ho fatto un accordo con Gruppo Italiano Vini, ma potrei citare anche Mezzacorona (Trento) che nel 2001 ha investito a Sambuca di Sicilia e Acate, o Illva di Saronno che nel 2001 ha acquisito Corvo, già forte dell’acquisto di Florio, o ancora Marchesi Mazzei (Toscana) che nel 2002 ha acquistato a Noto, e così tanti altri, non mi stupisce che adesso i francesi pongano attenzione verso la Sicilia. Si, direi che la situazione è cambiata in maniera radicale negli ultimi 30 anni. Oggi, invece, è l’Etna ad essere oggetto di attenzione da parte di investitori stranieri.

D. Spostiamoci sulla questione della identità
R. È un punto chiave, determinante e insostituibile. La Sicilia ha una identità molto forte e riconosciuta a livello internazionale. Non bisogna temere una collaborazione internazionale. Anzi, ben vengano le partnership dove esperienze diverse si mettono in relazione. Sarebbe invece un vantaggio per tutti i siciliani.

D. Cosa pensa dei vitigni internazionali in Sicilia?
R. La Sicilia è una terra con una enorme biodiversità. Non solo: ha una grande capacità di accettare e assimilare elementi che giungono dall’esterno. Faccio qualche esempio. Posso dire che alcune aziende siciliane, vale per la mia così come per Tasca d’Almerita o Planeta, hanno introdotto e piantato vitigni francesi con Bruno Pastena oltre quaranta anni fa. Lo Chardonnay è stato forse il primo. Tutti ci siamo subito accorti della estrema adattabilità di questo vitigno e con performance straordinarie, uniche, dimostrando una personalità che non ci saremmo mai aspettati.

D. Quindi è la Sicilia a “domare” i vitigni?
R. La Sicilia è stata dominata da chiunque sia passato dal Mediterraneo. Popoli che nella loro epoca erano al massimo della loro potenza economica, militare, culturale. Ma la forza della Sicilia è che ha sempre conquistato i suoi conquistatori, e alla fine ha sempre preservato la sua identità. In altre parole, essere siciliani significa esprimere un mix di tutte queste culture. In agricoltura è avvenuto e avviene la stessa cosa: pur con nuove importanti immissioni, la sicilianità è preservata. Uno Chardonnay siciliano lo riconosci subito, così come un Syrah. Il vitigno emerge, è naturale, ma anche l’identità e il carattere dell’Isola.

D. Quali sono i vantaggi?
R. La possibilità di evitare l’omologazione, persino con i vitigni internazionali. Le variabili, in un “continente vinicolo” come questo, sono numerosissime. Zona di produzione, tecnica di vinificazione, stile; uno stesso vino si può declinare in tanti modi diversi. Ma le caratteristiche più evidenti – in ragione del clima – saranno la ricchezza, la forza e il corpo, che nei vitigni precoci risaltano particolarmente.

D. Anche se assieme ad altri vitigni?
R. I blend hanno avuto grandissima importanza, soprattutto all’estero. Nord Europa, Inghilterra, USA, Canada, Giappone. Negli anni duemila, oltre il mero vantaggio di avere uno spettro organolettico particolarmente complesso, lì dove la conoscenza si limitava ai soli vitigni internazionali, la Sicilia ha ottenuto un grande beneficio perché gli autoctoni hanno avuto una visibilità impossibile da avere in altro modo. È stato un grande aiuto. Resta inteso che le quote dei vitigni internazionali, in generale, restano piuttosto basse. Quelli che dominano, largamente, sono i vitigni autoctoni, quindi Catarratto, Grillo e Nero d’Avola. Tuttavia, la vicinanza con i cari “vecchi francesi” apre la strada alla comunicazione, allo studio e ad un confronto costruttivo con quanto esiste qui da millenni.

D. Cosa c’è nel futuro della Sicilia?
R. Tanto studio, collaborazione, risorse, tecnologia, sapere. Non voglio sminuire il lato bucolico. Non si può fare questo lavoro se non lo si ama. Sforzi e sacrifici sono all’ordine del giorno e l’elemento della incertezza del raccolto o della vendita dei frutti resta così come agli albori dell’umanità. Oggi però bisogna approcciare la materia con uno spirito manageriale. Il ritorno all’agricoltura da parte dei giovani c’è, ma sono laureati, hanno dimestichezza con la tecnologia, gestiscono la vigna da remoto, conoscono nel dettaglio le cinetiche della maturazione dell’uva e la chimica dei mosti, la fermentazione è seguita a livello meticoloso. Inoltre, sulle grandi estensioni, per fare un prodotto biologico “serio” servono tutte queste competenze. Dunque, ben vengano tutte quelle collaborazioni che possono portare nuove idee e che, anzi, possano svilupparsi direttamente qui in Sicilia a vantaggio di tutti.

FP