L’origine della vite (e del vino) è ancora oggi avvolta in nebbie misteriose. I siciliani hanno, però, il vantaggio di essere circondati dal mito degli antichi popoli che l’hanno abitata.
Le prime tracce risalgono al 4.000 a.C., due i siti preistorici oggetto di studio, il colle Sant’Ippolito a Caltagirone e il Monte Kronio presso Sciacca. Le anfore in terracotta analizzate dagli archeologi ci dicono che in Sicilia si produceva vino prima del periodo predinastico della civiltà egizia (qui una nostra intervista e un articolo sulla scoperta).
Ma chi l’abitava? Un cronista del tempo, Tucidide, scrisse – visse nel IV secolo a.C. – i greci coabitavano l’isola con tre coinquilini, quasi tutti in fuga da qualcuno o da qualcosa. Da ovest verso est c’erano Elimi, Sicani, Siculi. Oltre questi, un po’ ovunque, i Fenici.
Gli Elimi erano troiani in fuga dopo la distruzione: “giunsero in Sicilia su barche, le loro città erano Erice ed Egesta” (Segesta). I Sicani, in fuga a causa dei Liguri, erano originari della Spagna e con loro l’isola “mutò il primitivo nome di Trinacria in quello di Sicania”. I Siculi, invece, arrivarono dalla penisola italica e il loro re si chiamava, guarda caso, Italo: “fuggivano gli Opici, passarono in Sicilia su delle zattere attraversando lo stretto dopo aver aspettato il vento propizio”.
I Fenici, infine, “abitavano qua e là per tutta la Sicilia” e che furono costretti dai greci a spostarsi verso “Mozia, Solunto e Panormo, vicino agli Elimi, quel punto della Sicilia distava pochissimo da Cartagine”.
I greci
Ma nel vino saranno i Greci a lasciare le tracce più evidenti. Fonti autorevoli riportano che la vite coltivata, la vitis vinifera sativa, è stata introdotta in Sicilia dal mondo egeo-miceneo (circa 2.000 a.C.). Dalla Sicilia poi la coltivazione della vite si sarebbe estesa al mezzogiorno della penisola italiana e con i romani in tutta Europa. Un’altra prova certa dell’esistenza della coltivazione della vite in Sicilia è costituita dalla Monetazione di Nasso (VII – V sec. a.C.).
Nella foto: 530-520 a.C., Nasso, fondata da greci provenienti da Calcide nell’Eubea e dall’isola egea di Nasso, adottò una moneta dove è raffigurata una splendida testa arcaica di Dioniso al dritto e un grappolo d’uva al rovescio che, evidentemente, attestava una delle principali produzioni della polis.
I greci, comunque, dovettero trovare in Sicilia, anche se in forma rudimentale, una primitiva coltivazione della vite. Omero nell’Odissea parla di vino, olio e ortaggi. Ma quel vino, come detto, dovette essere rozzo, contadino si direbbe oggi, non esistendo ancora una vera e propria arte della pigiatura, della fermentazione, della conservazione. Lo stesso non può dirsi del vino dell’età classica, ottenuto seguendo una tecnica già evoluta nella terra dei conquistatori della Sicilia.
Sulla costa ionica i corinzi fondano Siracusa, a sua volta Akrai, Casmenai e Camarina; i calcidesi fondarono Zancle o Messana e da questa Himéra. Sempre i calcidesi fondarono Naxos, poi Catane e Leontinoi; i megaresi fondarono Megara Hyblaea, da cui successivamente Selinunte. In ultimo, i rodio-cretesi fondarono Gela, dalla quale poi nacque a sua volta la decantata Akragas/Agrigento. E il vino c’era in tutte. Non furono città piccole o da poco. Per dare l’idea, Selinunte è il sito più grande d’Europa, la Valle dei Templi di Agrigento, forse, il più bello.
Tornando al vino, Eliano, un autore romano di lingua greca, scrisse nella sua opera Varia Historia di un vino siracusano famoso, il Pollion, dal nome del re Pollio. Questo mitico re, che per la sua datazione sarebbe il primo dei sovrani aretusei, introdusse la vite eileos (la pianta che si attorciglia), e da questa sarebbe nato il più antico dei vini siciliani ed italici, il Biblio, da cui deriva l’odierno Moscato di Siracusa (Ateneo). Un più che probabile indizio è offerto da un vaso vinario del V sec. a.C. conservato nel Museo civico di Siracusa, proprio con la scritta pollion.
In epoca pre-romana, la viticoltura era già diffusa in tutta l’Isola. Le fonti storiche sono fornite da vari autori, greci e sicelioti, tra questi Diodoro Siculo, Strabone e Polibio.
I romani
Per capire l’atteggiamento dei romani verso la Sicilia si può, in senso figurato, ricorrere alla figura del pastore verso le sue pecore: animali da mungere e tosare. Nonostante questo la Sicilia vedrà con i Romani, per la prima volta nella sua storia, un periodo produttivo, di unità e tranquillità che modellerà una fisionomia che in parte permane sino ai giorni nostri. L’isola divenne in breve tempo, soprattutto le aree costiere, una sorta di luogo di villeggiatura per i funzionari di Roma, una “Taormina” del tempo: i senatori della Repubblica possedevano belle ville, case sontuose e tenute dove si produceva frumento, olio, vino, formaggi, carne e anche schiavi.
Cicerone, che fu questore a Marsala (Lilibeum) nel 75 a.C. con incarico su tutta la parte occidentale della “prima Provincia di Roma”, scrisse nelle sue famose Verrine: “per prima essa insegnò quanto fosse bello governare su popoli stranieri”, e “fructuosissima atque opportunissima provincia”, mentre Marco Porcio Catone la descrisse come “nutricem plebis Romanae”, nutrice del popolo romano.
In dettaglio, nel periodo che va dalla seconda metà del I sec. a.C., alla seconda metà del I sec. d.C., sappiamo che la produzione del vino fu abbondante. Diodoro Siculo, cita in particolare
quella di Piazza Armerina. Non a caso, sono notevoli i riscontri presso la Villa romana del Casale. I mosaici sono talmente dettagliati che studiosi e ricercatori hanno persino individuato i vitigni coltivati a quel tempo. Di particolare pregio, nel vestibolo, la raffigurazione del ciclope Polifemo nella sua grotta, mentre sta per consumare la coppa di vino offertagli da Ulisse.
Sappiamo anche che il vino siciliano viaggiava lungo tutta la penisola. Infatti, a Pompei sono state ritrovate anfore vinarie con iscrizioni che indicano la provenienza, tra queste il “Mesopotamio”, che si ritiene essere il vino prodotto nella zona tra Acate e Vittoria, più precisamente tra i due fiumi Ippari e Dirillo, la “Plaga Mesopotamium”, l’attuale area del Cerasuolo di Vittoria. Oltre la costa sud, tra Siracusa e Gela, sono numerosi i ritrovamenti nelle zone di Caltagirone, Lentini, Comiso e Acate dove risiedono ancora oggi resti di antichi palmenti, edifici fortificati e fornaci per la costruzione di anfore, il che farebbe pensare ad un commercio costante e profittevole, effettuato per terra e per mare.
Nei successivi anni, con copiosi lasciti dalle importanti famiglie romane alle Chiesa – che iniziava a muovere i primi passi – l’unità della Sicilia espressa con i feudi fu sempre più grande, nonostante la caduta dell’Impero.
Tecniche di vinificazione
I greci ed i romani sottoponevano a doppia spremitura l’uva giunta a piena maturazione, ossia quando era ricca di sostanze zuccherine, e attendevano che il mosto ottenuto arrivasse alla prima fermentazione per versarlo in giare od anfore porose e chiuse. Dalle vinacce così ottenute ricavavano, poi, un vinello leggero, che veniva generalmente consumato dagli schiavi, perché considerato di poco valore. A differenza di quanto avviene oggi, i greci ed i romani riponevano i contenitori del vino non in fresche cantine, ma nei solai o nelle terrazze. Questa tecnica della vinificazione comportava che il vino diventava, col tempo, sempre più concentrato. Da qui la pratica di allungarlo con l’acqua, ossia di “battezzarlo”, come si dice oggi, al momento della consumazione. Una tecnica più raffinata, invece, arricchiva il vino con estratti di erbe e lo esponeva al fumo dei camini perché acquistasse un particolare profumo e sapore. Una tecnica molto interessante era quella di miscelare il mosto ricavato dalla prima spremitura (Protopum) col miele e con erbe per ricavarne una bevanda rinfrescante da offrire o consumare in occasioni importanti.
FP
Dioniso, vino, irrazionalità, gioia
tratto da Percorsi Didattici al Museo Archeologico – Paolo Orsi Siracusa
di Concetta Caurcina
Figlio segreto di Zeus, avuto da una mortale, Semele, e tenuto a lungo nascosto per sottrarlo alla vendetta di Hera. Il suo nome, Dionysos, significa “nato due volte” e si riferisce proprio alla leggenda sulla sua nascita. Come Atena, fu partorito dallo stesso Zeus dopo averlo cucito nella sua coscia alla morte della donna con cui lo aveva concepito, Semele, rimasta incenerita dopo aver chiesto al divino amante, stoltamente e ingannevolmente consigliata dalla gelosa e vendicativa Hera, di mostrarsi nelle sue fattezze.
Dopo averlo partorito, Zeus lo affidò ad Ermes affinché lo portasse alle ninfe del Monte Nisa, in Arcadia, che lo avrebbero allevato. Il giovane Dioniso crebbe quindi libero e selvaggio tra i boschi e proprio durante le sue scorribande scoprì la vite ed il suo frutto e imparò a ricavare dall’uva fermentata il vino, inebriante bevanda che amava gustare.
Il mito racconta che il giovane dio viaggiò per tutta la terra, anche verso luoghi molto remoti come l’India, su di un carro, coronato di pampini e di edera e con un corteo di Satiri, esseri brutti e villosi con coda e zampe caprine e dalle orecchie appuntite, e di Menadi, donne che danzavano scompostamente e suonavano ritmi frenetici invasate dalla presenza del dio e dagli effetti del vino. Durante i suoi viaggi Dioniso insegnò ai contadini la viticoltura, fondò nuove città, istituì culti in suo onore e spinse gli uomini verso una vita più lieta, fatta anche di trasgressione.
Una leggenda legata al dio racconta che, durante una delle sue peregrinazioni per il mondo, fu rapito e reso schiavo da pirati a bordo della nave sulla quale era salito, non riconosciuto. Adirato per questo e per potersi liberare, il giovane Dioniso fece spuntare tralci di vite e di edera sull’imbarcazione, trasformò i remi in serpenti per impedire la navigazione della barca e fece comparire pantere e leoni, trasformandosi lui stesso in una fiera selvaggia. I pirati, terrorizzati, si tuffarono in mare e il dio li trasformò in delfini.
Ripreso il viaggio, Dioniso, nell’isola di Nasso, incontrò Arianna, abbandonata lì dall’eroe ateniese Teseo al ritorno da Creta. A questo punto, il giovane Dioniso, dopo aver abbondantemente svolto la sua missio- ne educatrice sulla terra, poté assurgere all’Olimpo, insieme alla sposa Arianna, al fianco del padre Zeus.
Il culto di Dioniso
Fu adorato come benefattore dell’umanità, alla stregua di Apollo e di Demetra. Era considerato un dio gioioso che voleva alleviare le pene dei comuni mortali con la sua bevanda magica, ma spesso la leggerezza dell’animo lasciava il posto all’irrazionalità e alla totale assenza di ogni controllo emotivo. Quasi sempre il culto moderato del dio si trasformava in un culto orgiastico: durante le feste dionisiache i Satiri e le Menadi o Baccanti si abbandonavano al richiamo del dio, grazie anche all’ubriachezza dovuta al vino. L’invasamento raggiunto dalle Menadi era tale da poter ridurre a brandelli con la sola forza delle loro mani gli animali destinati al sacrificio in onore del dio; Satiri e Menadi, spesso in preda a vere e proprie allucinazioni e completamente privi di razionalità, si abbandonavano a danze e orge vere e proprie. Il dio aveva quindi il potere di sconvolgere la mente umana, come raccontano per esempio Le Baccanti di Euripide: Penteo, re di Tebe, aveva vietato alle donne tebane la celebrazione dei riti dionisiaci. Egli incatenò il dio e negò l’evidenza dei suoi prodigi. Dioniso si slegò dalle catene, incendiò il palazzo reale e non volle ascoltare i moniti dell’indovino Tiresia. Penteo decise poi di recarsi sul Monte Citerone a spiare le tebane durante i riti segretissimi in onore di Dioniso. Si nascose su un albero, ma le donne, in preda all’invasamento, lo scambiarono per un animale e lo sacrificarono al loro dio, dopo averlo squartato con la sola forza delle loro mani. Proprio la madre Agave ne infilzò la testa su un bastone, scambiandola per quella di un leone e rientrò a Tebe mostrandola come un trofeo. Rinsavite e compreso quanto accaduto, le donne ebbero una forte impressione di quanto fosse grande su di loro il potere del dio: erano state il suo strumento per punire la superbia (ubris) di un comune mortale.
Il mito di Dioniso nell’immaginario greco
Soprattutto sui vasi attici a figure nere e a figure rosse, in particolare su quelli utilizzati durante i simposi, crateri, kylikes, lekythoi, sono molto frequenti le immagini dei cortei dionisiaci. Le Menadi sono raffigurate nella loro condizione di invasate con gesti nervosi e frenetici che rivelano la loro eccitazione: vestono abiti leggeri, trasparenti, oppure pelli caprine o di pantera. Hanno il capo coronato d’edera e di pampini, impugnano il tirso, bastone sacro a Dioniso coronato da una pigna e avvolto d’edera, suonano timpani, cembali e doppi flauti, danzano nervosamente al ritmo frenetico e ripetitivo tipico dei cortei dionisiaci. Dioniso compare spesso in queste scene, seminudo, imberbe, a testimonianza della sua giovinezza, in mezzo al corteo, con il capo coronato d’edera e pampini, il tirso in mano e spesso anche una coppa di vino.
Un corteo divino sul cratere di Antimenes
Il cratere a figure nere, rinvenuto a Siracusa nella necropoli dell’ex Giardino Spagna nel 1953, è un capolavoro della produzione attica, attribuito al Pittore di Antimene, nome convenzionale di questo ceramografo attivo ad Atene tra il 530 e il 510 a.C..
La scena sul lato principale rappresenta un corteo divino su una quadriga, probabilmente connesso con l’arrivo dell’eroe Eracle sul monte Olimpo, sede degli Dei.
I personaggi della scena, partendo da sinistra: il primo è Dioniso con la barba e i capelli cinti d’edera, rappresentato con un tipico kantharos (ovvero una coppa per bere) nella mano sinistra, mentre con l’altra trattiene un tralcio di vite; segue Atena, dea guerriera simbolo di sapienza, con elmo e alto cimiero, mentre sta per salire su una quadriga rivolta a destra, di cui con una mano trattiene le briglie, mentre con l’altra brandisce una lunga lancia; al suo fianco un personaggio maschile, Eracle probabilmente, che indossa una tunica e un mantello; concludono la scena Apollo, dio del sole e della musica, con la cetra in mano, una figura femminile in parte coperta dai cavalli della quadriga e, davanti ai cavalli, Hermes,il dio messaggero, che porta sul capo il tipico cappello a larghe falde (il pètasos) e in mano il caduceo. Sapete cosa è? Si tratta di un bastone alato con due serpenti attorcigliati, simbolo in antico dell’araldo. Attenti a non confonderlo con quello di Esculapio, dio della medicina, che di serpente ne ha uno solo!
In basso, è raffigurato un komòs, ovvero un corteo rituale dionisiaco, con Dioniso barbato al centro, con la coppa per bere, il kantharos, nella mano destra e tralci di vite nell’altra, fra un satiro(figura mitologica maschile con attributi di capra) e una menade (donna devota al culto di Dioniso) ammantata a destra che suona i crotali(quelli che oggi chiamiamo volgarmente tricchetracche).
La scena sul lato secondario rappresenta anche qui un corteo rituale con Dioniso di profilo al centro, con un kantharos in mano, di fronte a una figura femminile ammantata, interpretata come Arianna, la figlia del re di Creta Minosse, che, prima innamoratasi di Teseo e da lui abbandonata dopo l’uccisione del Minotauro, divenne moglie di Dioniso. Alle spalle di Dioniso una menade, interpretata come la nutrice di Arianna; ai lati due satiri danzanti e sopra l’ansa, una menade di fronte a un altro satiro.
In basso, al centro una quadriga in corsa verso destra, fra due grandi palmette di riempimento. Le lettere inscritte (ASOIET e LOIS) non hanno un particolare significato.