Che il cibo di strada di Palermo sia legato al concetto internazionale di “Street Food” è ormai un fatto consolidato. Inscindibile. Arancine e supplì, sfincione, frittole, stigghiole, pani ca’ meusa, pane e panelle, rizzuole, spitini, pollanche, muccuna, babbaluci, musso e carcagnolo, rascature, calzoni, ravazzate e rollò… sono la quotidiana, normale offerta per chi desidera qualcosa di gustoso, da mangiare in piedi o anche camminando, con calma o di fretta. Non ha importanza, purché sia buono e che costi il giusto, anzi, poco.
Nelle classifiche mondiali del cibo di strada Palermo è nella top-ten insieme a smisurate metropoli come Bangkok e Singapore. Di qualità e salute, però, si parla ancora poco. Pur essendo stati fatti passi da gigante in tema di tracciabilità e controlli nella ristorazione, il cibo di strada resta tuttavia in una zona grigia di difficile valutazione. Della questione abbiamo parlato con Mario Indovina, presidente di Slow Food Palermo.
D. Dott. Indovina, Slow Food Palermo è sempre stata vicino al cibo di strada della città. Ci esprima il suo punto di vista.
R. Il cibo di strada è un tassello indispensabile per la conoscere Palermo, un punto di forza che crea molta attenzione e aspettativa. Tanto è vero che abbiamo voluto inserire nella guida alle Osterie di Italia, edita proprio da Slow Food, un capitolo che riguarda il cibo di strada e gli antichi mercati alimentari come Ballarò, Capo e Vucciria. È una forma tradizionale, tipica di approcciarsi ai sapori di Palermo. Tuttavia anche noi siamo in difficoltà.
D. In che senso?
R. Slow Food promuove i principi del “buono, pulito e giusto”. Ciò che mangiamo deve essere buono, deve essere sano e deve sostenere chi produce cibo. Quindi, il lavoro di contadini e allevatori deve dare loro quella dignità che non sempre gli è riconosciuta dai consumatori. Verso il senso di responsabilità, Slow Food parla infatti di co-produttori, non di consumatori. Ebbene, nel caso del cibo di strada, un cibo povero per definizione, questi concetti sono a rischio.
D. Quindi ciò che è in strada non soddisfa queste tre regole?
R. No, dico semplicemente che è più difficile. Primo perché ci troviamo a prodotti che spesso in città costano non più di un euro. Mi segua: a questo euro occorre togliere il costo della materia prima, della trasformazione e talvolta del trasporto; difatti, non infrequentemente, vengono preparati in altri luoghi. Si pensi ai “lapini” (Moto Ape Piaggio) degli sfincionari o alla frittola. E infine, diciamocelo, in quanti rilasciano lo scontrino? Quindi stiamo parlando di un profitto netto di centesimi. Risparmiare sulla materia prima è lo sfogo più probabile, è logico, ci pensi.
D. Come si risolve questo passaggio?
R. Con la buona volontà di ambo le parti: il cuciniere/venditore, da un lato, deve informare, quindi esporre informazioni sul cosa utilizza; il consumatore, dall’altro, non deve temere di fare domande, spingere il venditore stesso verso un percorso virtuoso e deve essere pronto a pagare qualcosina in più. E’ difficile, lo so, ma ci sono molti casi positivi, ad esempio il panificio Guccione di via Pipitone Federico, ma è un forno di alta qualità, fa delle arancine favolose; Davide a Villa Sofia, che adesso ha persino un piccolo negozio. Ci ha stupito da subito perché, a nostra memoria, era l’unico ambulante a rilasciare lo scontrino. Si può scegliere, oltre al classico semprefresco, un pane di grane antico siciliano, ad esempio di Timilìa.
D. Si, ma che difese ha il consumatore che si trova di fronte ad una scelta? Consumare o no?
R. È un dilemma irrisolvibile. Assaggiare è un buon sistema in ogni caso. Potrei segnalare il caso dello sfincione di Sardina e Martorana all’Aspra presso Santa Flavia, poco fuori Palermo; è un prodotto molto intenso e gustoso, calibrato nella gestione dei grassi; però si capisce subito che è buono e che non appesantirà più di tanto.
D. In questi giorni c’è un gran parlare di cibo di strada, anche per il prossimo Palermo Street Food Fest. Sono persino stati invitati chef quotati. Che ne pensa?
R. Non entro nel merito, penso che sia una scelta mediatica. Non mi fraintenda, però al blasone ci credo poco. Stiamo parlando di cibo di strada, di tradizione, di folla e sudore. Penso che il cibo di strada debba restare territorio di uno specifico segmento, di produzione e di consumo. Magari adesso si inventeranno qualcosa di interessante e inedito e domani si torna al solito euro. Lo Street Food è un genere di creatività che viene dal basso, che fa i conti con il genio italicus dell’arrangiarsi. Mi si consenta anche un’altra precisazione: l’arancina non è cibo di strada, forse da viaggio, ma nasce nobile. Tiriamola fuori dalla mischia. È una pietanza di una eleganza unica, gli ingredienti non sono poveri.
D. Quindi lo street food è in evoluzione?
R. Assolutamente si. La natura multi etnica di Palermo è l’humus ottimale per proseguire su questa strada. Si pensi al Kebab, un cibo di strada non palermitano, turco, che adesso inizia a muoversi anche qui in città. Gli immigrati non mancano: tra nord e centro Africa e Sri Lanka, delle comunità abbastanza grandi, il centro di Palermo si sta modificando. Nelle presenze, quindi le persone, e nei profumi che si possono sentire tra i vicoli. Ha mai sentito il profumo del riso bollito? A Palermo ne trova tanto.