Lorenzo Landi, nato nel 1964, è cresciuto a Pescia in provincia di Pistoia, un comune confinante con Montecarlo di Lucca. Paese “DOC”, non è conosciuto per i suoi vini, bensì per i vivai e, in primavera, gli “asparagi giganti” locali. La famiglia non si occupava di vino o viticoltura, anzi di cose ben diverse, anche se il padre, fortunatamente, era un grande appassionato di vino.
Ciononostante, il giovane Landi decise di frequentare prima l’Istituto Agrario locale, poi la Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa. All’epoca, gli anni Ottanta, nelle università italiane non si insegnava enologia. La materia era, invece, insegnata insieme alla produzione di olio di oliva, formaggi e allevamento di bestiame, come parte del corso di industria alimentare. Un master in enologia fu poi conseguito all’Università Cattolica di Piacenza e la formazione teorica fu seguita, come prima esperienza pratica, da un periodo di lavoro in Borgogna, presso la cantina Leflaive di Puligny-Montrachet, uno dei grandi nomi del vino bianco al livello mondiale. Rientrato in Italia, Landi scelse nel 1991, come primo lavoro professionale, la direzione tecnica di un’ importante cantina sociale, quella del paese di Vinci, sempre in provincia di Pistoia, che aveva preso il nome dell’immortale Leonardo, e gestiva la produzione di quantità significative di vino sino al 1996, anno in cui si spostò a Montepulciano per assumere la direzione tecnica della Fattoria del Cerro, all’epoca, e pure tuttora, la maggiore azienda privata della DOCG Vino Nobile di Montepulciano. La tenuta faceva parte del ramo agricolo della compagnia di assicurazione SAI, e in quel periodo iniziò un programma di espansione vitivinicola che sboccò nella costituzione di due importanti realtà produttive: la Poderina a Montalcino e Col Petrone a Montefalco, i cui vini eccellenti, insieme a quelli di Montepulciano, furono curati da Landi per tre lustri. La decisione di imboccare la strada della libera attività venne all’inizio del nuovo millennio e da quel momento la professione lo ha portato in giro Italia, dal Friuli fino alle zone più meridionali dello stivale. La Sicilia, ovviamente, non poteva mancare da questo Grand Tour enologico.
D. Ci racconti degli inizi della sua attività in Sicilia e cosa ha trovato al suo arrivo
R. Tutto cominciò nel 2003, pochi anni dopo che avevo deciso di iniziare l’attività di consulente, con Cottanera presso Castiglione della Sicilia, proprietà della famiglia Cambria, imprenditori messinesi. Non so di preciso perché mi abbiano contattato, forse grazie all’uomo che si occupava del mercato americano per loro, un trentino molto in gamba con cui ho avuto diverse occasioni – gradevoli e proficui – di lavorare. L’azienda, che ora può vantare 65 ettari vitati, era più piccola all’epoca, ma non di molto, sebbene poco dopo il mio arrivo si sia concluso un acquisto di grande importanza, una parcella di vecchie viti nella contrada Calderara che ora fornisce le uve per l’Etna Rosso Riserva Zottorinotto, il vino di punta della casa. Oltre l’età delle viti c’è il valore intrinseco di questa sottozona dell’Etna, una delle migliori a mio avviso, dotata della classica sabbia vulcanica della montagna. Una buona parte del vigneto, però, era stata piantata negli anni ’90 e, vista l’aria che tirava in quel decennio non solo in Sicilia ma dappertutto in Italia, non sorprenda, trovai diversi vigneti piantati con le classiche varietà internazionali, cabernet, merlot e syrah, nonché il mondeuse, vitigno della Savoia francese che lì, in quell’area alta e fresca, dà vini, ad essere generosi, di solo medio livello. Sull’Etna, invece, con un clima molto più caldo e un’altra insolazione, si riesce ad ottenere bottiglie di corpo e struttura molto inattese. Ma la moda dei vini internazionali ha subito una notevole risacca nella ultima decade e non potrebbe essere più logico e naturale il desiderio, sempre più forte in tutti i mercati, di bere produzioni che rispecchiassero le particolarità che solo le varietà indigene possono dare, coltivate e vinificate bene nei loro territori d’origine. Dunque l’azienda ha deciso di continuare con il syrah e mondeuse mentre il cabernet e merlot sono stati dismessi. Non direi che i risultati fossero deludenti, ma i suoli vulcanici sono tutt’altro che classici per queste uve. Si pensava che le alte quote potessero compensare la maturazione relativamente precoce del merlot, ma mi permetto di dire che fino ad oggi è sicuramente l’uva francese più problematica in terra sicula. La linea ora consiste essenzialmente nelle classiche proposte etnee: i bianchi, il base e la selezione Contrada Calderara, sono prodotti con il carricante. L’ultimo è, in parte, affinato in botte, mentre il Bianco Barbazzale, con denominazione DOC Sicilia anziché Etna, impiega principalmente il catarratto, un vitigno che richiede molta attenzione al timing in raccolta: la finestra è piuttosto stretta, sono in agguato sia la Scilla dell’amaro e del verde, sia il Cariddi della ossidazione. C’è pure un rosato e i rossi che spaziano dalla Doc Sicilia Nerello Mascalese ai quattro Doc Etna Rosso: Barbazzale, Diciassettesalme, Feudo di Mezzo e la riserva Zottorinoto.
D. Oltre al cambiamento della impostazione della gamma per renderla più “siciliana”, cosa avete cambiato per quanto riguarda la vinificazione?
R. I cambiamenti sono stati graduali e rispecchiano per molti versi quelli apportati a molti altri vitigni in tante altre zone d’Italia, e anche nel mondo, dove la ricerca della potenza, a volte purtroppo frenetica, ha squilibrato i vini. La conoscenza delle vinificazioni delle varietà francesi ha avuto come conseguenza l’imitazione pedissequa basata sull’erronea convinzione che le metodologie galliche potessero essere trasferite tout court alla trasformazione e affinamento delle uve italiane. Quindi la stragrande maggioranza della produzione, soprattutto dei vini rossi, ora viene affinata nelle botti anziché nei legni piccoli. Per il resto, non credo che si possa parlare di cambiamenti radicali, bensì di aggiustamenti di tiro basati sulle esperienze in tante altre cantine e zone. Per me i vini importanti necessitano quasi sempre di periodi di fermentazioni e macerazioni piuttosto lunghe e per quanto riguarda questo aspetto le vinificazioni non sono state modificate; la moda delle fermentazioni brevi in roto-fermentatori non mi ha mai attirato. Le estrazioni si basano fondamentalmente sui rimontaggi, ma ora questa fase dura soltanto una settimana e dopo i serbatoi non sono colmati, bensì saturati di gas inerte per impedire ossidazioni e acetificazione, il cappello rimane in contatto con la parte liquida della massa per cedere sostanze riducenti e nanoproteine. Un cambiamento generale, adottato sia in Sicilia sia altrove, però, è l’impiego del torchiato. Per diversi anni non si adoperava quasi più: causa le estrazioni molto vigorose e sostenute nel tempo non rimaneva niente di qualitativo nelle bucce, nulla da conservare e utilizzare dopo le svinature. Ma adesso che le estrazioni sono meno spinte, un uso intelligente del torchiato è tornato ad essere una pratica molto utile, anche se bisogna stare molto attenti, sfecciarlo puntualmente è indispensabile per evitare problemi di pulizia aromatica.
D. Un giudizio globale sull’esperienza sul vulcano?
R. Molto positiva. Ho avuto la fortuna di arrivare 15 anni fa quando stava per partire la rivoluzione qualitativa che ha ridato ai vini la fama e lustro che meritavano. Si tratta di varietà molto valide, con carattere e personalità in una zona storica del vino italiano. Aver contribuito insieme ai colleghi al nuovo prestigio dell’Etna è, ovviamente, una grande soddisfazione e il riscontro ottenuto nei mercati nazionali e internazionali è un ulteriore piacere. In un momento non facile dal punto di vista commerciale, il nome “Etna” ora funziona benissimo e vedere che gli sforzi profusi sono ripagati da questi successi è gratificante.
D. C’è un seguito all’esperienza sull’Etna?
R. Dopo un decennio ho ampliato i miei interessi in Sicilia, fortunatamente in un’altra zona storica, il trapanese. La prima reltà è un’azienda messa in piede da un importante imprenditore del marmo, un progetto di una dimensione piuttosto significativa, un centinaio di ettari vitati. Si chiama Assuli e i vigneti si trovano principalmente tra Mazara del Vallo, Salemi e Castelvetrano. Sono stati piantati piuttosto bene, potati sia a Guyot che a cordone speronato, buone le densità, all’incirca 5.000 ceppi per ettaro. C’è anche un impianto di irrigazione, quasi indispensabile in una zona con un clima caldo e secco di questo tipo. Come quota non siamo molti alti, dai 100 ai 250 metri s.l.m. in linea di massima, ma con un nuovo acquisto su Monte Scorace arriveremo a 650 metri. I terreni sono tendenzialmente argillosi, ma anche calcarei, spesso in modo accentuato. Lo ritengo molto positivo perché ritardano le maturazioni, un fattore di vantaggio nel clima della Sicilia sudoccidentale. L’obiettivo è di fare vini di carattere varietale e di buona beva, i prezzi saranno contenuti, ma non bassi, inutile scannarsi pur di entrare nei supermercati, la resa bassa in vigna comunque non lo consentirebbe. La cantina è ben attrezzata dal punto di vista della tecnologia e la linea è molto ampia con una gamma che include le maggiori varietà dell’isola: catarratto, grillo e insolia per i vini bianchi, nero d’Avola e perricone per i rossi. Ritengo molto interessante quest’ultimo vitigno con le sue note di spezie e pepe, anche se c’è ancora molto da studiare. C’è una ripresa di interesse in queste uve isolane, fino a poco tempo fa non al centro dell’attenzione. A differenza del nero d’avola, per questa varietà non c’è alle spalle una vasta esperienza a cui attingere. C’è pure qualcosa di internazionale, come in quasi tutte le cantine siciliane di una certa dimensione, ma di poco conto, con produzioni limitate. La linea è stata divisa in due, i classici e i premium: i primi, sia bianchi che rossi, sono fermentati e affinati in acciaio inossidabile, non viene impiegato alcun tipo di legno, ma i bianchi fanno una sosta sui lieviti prima dell’imbottigliamento e i vini imbottigliati attendono 2-3 mesi prima di essere commercializzi. I vini premium, invece, almeno per i rossi, sono invecchiati in botti mentre i due vini bianchi di punta o fanno un lungo periodo “sur lies” oppure, per una percentuale (il 25%) della massa, una sosta in botti di rovere. Una curiosità: i vini portano i nomi – Orlando, Astolfo, Carinda, Donna Angelica, Fiordiligi, Ruggiero – di personaggi dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Come già detto, l’obiettivo aziendale è la produzione di buoni vini, di personalità territoriale e carattere varietale, puliti, espressivi, di buona sostanza e beva e di un ottimo rapporto qualità/prezzo. Non sono molti gli anni del mio coinvolgimento, ma mi permetto di dire che anche questo fa parte della vocazione della Sicilia. Non c’è alcuna intenzione di competere solo sul prezzo nel tentativo di sfondare nella grande distribuzione organizzata, e non sarebbe possibile farlo; facciamo una viticoltura seria con rese tenute accuratamente sotto controllo, pratiche che hanno i loro costi.
D. Pare che sinora abbia scelto, o sia stato scelto, di lavorare in zone classiche…
R. A dire la verità no, ho un’altra azienda con cui collaboro. Coste Ghirlanda, sull’isola di Pantelleria, mi ha contattato nel 2012. Non so precisamente per quale motivo, forse grazie ad una conoscenza comune di un produttore abruzzese. Comunque, anche se la produzione di vini a base di moscato di Alessandria, cioè zibibbo, ha una storia secolare sull’isola, non la chiamerei una zona classica, la fama di questi vini risale essenzialmente agli anni ‘90 quando i primi esemplari validi cominciavano ad uscire sui mercati. Ad ogni buon conto, il contatto era molto gradito: ho trovato un’ottima collaborazione con la proprietaria Giulia Pazienza, innamorata di Pantelleria dove ha pure creato uno splendido piccolo albergo, con un ottimo ristorante. Anch’io sono rimasto ammaliato dalla bellezza del posto, un paesaggio mozzafiato e totalmente originale, coltivare la vite non è semplice visti il vento, le temperature e la siccità, ma lo stress fa parte della viticoltura di qualità e tocca a noi tecnici gestirlo al meglio. Avevo lavorato con vitigni della famiglia dei moscati a Montalcino dove curavo un Moscadello di Montalcino, vino totalmente diverso per quanto riguarda la tipologia, ma in quel caso si trattava del moscato bianco, quello del Moscato di Asti per intendersi, che i francesi chiamano muscat blanc a petits grains. Lo zibibbo sicuramente non ha un acino piccolo, anzi è piuttosto grande, ma possiede i classici profumi della varietà, ed è il preciso compito dell’enologo conservarli ed esaltarli. La data della raccolta è di importanza basilare, bisogna azzeccarla con molta precisione per evitare problemi di ossidazione nei vini. Richiedono molta attenzione pure le macerazioni, ovviamente fredde, a scopo aromatico. Una sorpresa molto piacevole, però, è stata la scoperta che il zibibbo ben fatto può anche invecchiare; l’opinione più diffusa è che questi vini sono da bere solo giovani ma ho potuto assaggiare quelli da noi prodotti con 4-5 anni di età e devo dire che hanno tenuto molto bene. Sono diverse le case siciliane che ora offrono un Moscato secco, non necessariamente fatto a Pantelleria, ma che comunque mette in evidenza le virtù dello zibibbo, soprattutto quando si lascia un piccolo residuo zuccherino per attutire le note amarognole che si possono trovare in varietà di forte impatto aromatico, sono vini ovviamente di personalità, fragrante, di bella freschezza, molto adatti pure ad un pubblico giovane. Noi ne facciamo due, il Jardinu e il Silenzio, questo leggermente più secco, e abbiamo avuto un buon riscontro nei mercati. Per quanto riguarda invece il Passito di Pantelleria, altro paio di maniche, le nostre pratiche divergono un po’ dalla tradizione isolana, cosa che non mi disturba; la tradizione va rispettata, ma la nostra preparazione scientifica e gli anni di pratica dovrebbero permetterci di apportare qualche modifica alle tecniche tradizionalmente usate in loco. L’uva appassisce al sole sui cannicci durante il giorno ma viene portata dentro durante la sera e notte. Il periodo di appassimento dura 20 giorni e anche oltre, il risultato finale potrebbe chiamarsi uva secca, non appassita, come quella da mangiare oppure utilizzata in cucina, arriviamo a concentrazioni fino a 600-650 gr/lt nel loro mosto quando è aggiunto al moscato base già preparato. Il vino finale, comunque, normalmente contiene all’incirca 150 gr/lt di zucchero, più di un Sauternes, ma non miriamo ad un vino di una dolcezza molto accentuata. La casa produce anche un vino rosso da uve Grenache, vitigno che ho lavorato molto negli anni, in Umbria vicino al Lago Trasimeno dove lo chiamano, erroneamente, gamay, altra uva francese completamente diversa, e in Sardegna, dove porta il nome Cannonau. È di origine spagnola, si chiama garnachanella penisola iberica ed è, soprattutto, una classica varietà da clima secco, molto resistente. Spesso continua a vegetare anche in condizioni di stress idrico estremo. Nella più rinomata denominazione del Midi francese, lo Châteauneuf-du-Pape, ad esempio, qui quasi non c’è terra, il terreno è una vera e propria pietraia, lo stress è qualcosa di costante e la similarità climatica con Pantelleria pare evidente. Le proprietarie, infatti, sono amanti di un grande, forse il più grande Châteauneuf-du-Pape, lo Château Rayas. Non facciamo nulla di particolare nella vinificazione, le macerazioni sono di media durata, prolungarle non servirebbe a niente, non è un vitigno da vini di struttura imponente. Gli aromi, molto fruttati, invece sono di grande fragranza e i tannini sono molto morbidi e setosi. Proprio per questo motivo utilizziamo le botti di rovere per l’affinamento. Mi pare un altro esempio della vocazione polivalente della Sicilia, motivo per cui mi ha fatto un grande piacere poter lavorare sull’isola, conoscere non solo diverse realtà produttive ma anche il fascino del paesaggio, dei monumenti e della storia di questa grande civiltà.
di Daniel Thomases