La “Satyagraha” di Arianna Occhipinti

 

Philip Glass è un giovane tassista di Baltimora, intrappolato dentro i reticoli caotici della quinta, tra rumori assordanti di clacson.

Rumori di clacson? John Cage anni prima affermò: “Che me ne faccio di un’orchestra? Io ho la 6th avenue sotto casa”. Se la musica è davvero un “suono umanamente organizzato” e se la musica può essere aleatoria, quel giovane tassista di Baltimora, non stava sbarcando il lunario imbottigliato nel traffico della grande mela. Quel rumore, in realtà, era suono e lui stava semplicemente andando a lezione di avanguardia musicale, ancor prima di andare a Parigi da Nadia Boulanger e diventare, nel tempo, quel Philip Glass che si trova tra i dieci compositori più influenti del Novecento.

Ora, non vorrei far passare l’idea che un improvvisato musicista, in barba ai canoni e ai conservatori, avesse deciso di formarsi nella prestigiosa “Università delle piazze e delle strade”.

La vera avanguardia non può esistere, se non si ha piena conoscenza di ciò che si vuole cambiare. E ascoltando Philip Glass, studioso e musicista, certi sentori di scuola fiamminga, Bach, Satie e gli studi con la Boulanger, si sentono, eccome.

Robert T. Jones, invece, è un giovane giornalista del Times e da rookie della cronaca musicale, tocca a lui andare in giro per teatrini off ad ascoltare le nuove idee che imperversano nei primi anni Sessanta.  Lo stesso approccio di quando inizi a collaborare con il quotidiano locale e vai a scrivere di tombini intasati e incontri di calcio di serie minori, tra campi sabbiosi e linee del centrocampo a zig zag.

Robert T. Jones, per diversi anni, è stato l’acerrimo nemico di Philip Glass.

Su un trafiletto del Times, lo stroncò senza pietà, augurandogli una fine anticipata, tanto a lui artista, quanto ai suoi organetti schizofrenici. L’amore di verità ha voluto che Robert T. Jones, anni più tardi, si trovasse a scrivere la prefazione della biografia ufficiale di Philip Glass, raccontando, onestamente e con un po’ di imbarazzo, anche questo aneddoto. Galeotta scintilla che fece ricredere Jones, fu la prima di Einstein on the Beach, un’opera teatrale della coppia Glass-Bob Wilson, dove gli argomenti cardini tornano a raccontare un mondo più conosciuto e comprensibile (è l’opera, bellezza), ma con uno stile nuovo, figlio di esperienza, genio e – probabilmente – suoni di clacson.

Il lieto fine è che nella vita bisogna osare, senza farsi abbattere da una stroncatura. E chissà se quel trafiletto incattivito, alla fine,  non sia stato un monito per Glass, per mettere ancora più a fuoco la sua arte.

Arianna Occhipinti mi ricorda un po’ gli esordi di Philip Glass. Giovane, in divenire e ostentata dai canoni “classici” di certe produzioni che non esaltavano la sua avanguardia vinicola. Un’avanguardia, che come tutte le avanguardie, guardava indietro, come una sorta di rincorsa per lanciarsi nel nuovo.

Nel tempo ha accettato critiche e diffidenze, preferendo le prime alle seconde, bypassando qualsiasi collocazione di genere e parole da archiviazioni storiche o giornalistiche che lasciano il tempo che trovano, come “Ars Nova”, “Post Punk” o “Minimalismo” che potrebbero raccontare tutto e il contrario di tutto. E questo, Arianna Occhipinti lo ha capito, sgusciando via da etichette tout court e concentrandosi nella sua personale estetica produttiva.

Una scelta, la sua, che non prevede nessun fanatismo di sorta; quello dove una ragione è assoluta e deve vincere sull’antagonista come una qualsiasi puntata di Mazinga Z.

Non è facile comprendere un vino della cantina Occhipinti ed è questo il paradosso che accomuna il suo percorso con quello di Philip Glass. Entrambi hanno scelto, ciascuno nei rispettivi ambiti, una strada, volendo, “semplice”: il ritorno alla tonalità, la ricerca di un humus elementare da trattare con raffinatezza e artifizi che prevedano un tocco di oriente.

Sì, in alcuni suoi vini si può intuire il quarto di tono tipico della musica orientale, capace di arricchire e per nulla interessato a contraddistinguersi come vino “etnico”.

C’è una forza che vive e si sviluppa nella ricerca stabile della buona causa, figlia della verità e dell’amore. Gandhi la chiamò Satyagraha e Philip Glass, nel 1979, gli dedicò una memorabile opera in tre atti. Arianna Occhipinti, anni dopo, prosegue la sua Satyagraha, fatta di amore, consapevolezza e una giustificata ricerca del giusto, con un piglio capace di portare dei frutti che non vedono l’ora di risolversi in un bicchiere.

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