Le Eolie e la Malvasia delle Lipari. Il racconto di Nino Caravaglio

 

Le isole Eolie hanno una cultura contadina più che marinara, l’agricoltura qui è sempre stata la prima fonte di sostentamento. La vigna – quella che con la coltivazione del cappero ha resistito meglio all’era contemporanea – disegna un territorio, oltre ad essere una barriera per gli incendi e per l’erosione del terreno. L’intervista a Nino Caravaglio che riportiamo di seguito è stata realizzata nell’aprile 2021. 

Nino Caravaglio

D. Nino, un po’ di storia della sua famiglia, del vino e del lavoro che si faceva
R. La mia era una famiglia di agricoltori e contadini da generazioni. Ai tempi fare agricoltura alle Eolie era molto pesante, e anche oggi non è diverso, con tutte le criticità che un’isola comporta. Nella nostra azienda producevamo vino rosso, malvasia di Lipari per l’ottenimento del passito e capperi. Le uve rosse erano per l’80% le varietà siciliane a bacca rossa, perricone, corinto nero, e nerello mascalese, un restante 10 era a catarratto, inzolia, mentre l’altro a malvasia. I muri dei terrazzamenti di Salina sono più alti dei comuni muretti di contenimento, aspetto che ha favorito la coltivazione non solo delle viti ma anche del frumento e legumi. Tuttavia, alla base dell’economia isolana, la coltivazione della vite e dei capperi rimane fino ad oggi incontrastata.

D. Che ci dici della tua famiglia?
R. Mia nonna nacque a Boston nel 1898 a seguito della migrazione causata dalla crisi generata dalla fillossera, che sulle Eolie arrivò con 20 anni di ritardo anche rispetto al resto della Sicilia, grazie al mare che fungeva da barriera. La passione e la dedizione con la quale la mia famiglia conduceva l’impresa agricola, mi portò a scegliere la facoltà di agraria. Una volta terminati gli studi continuai ad occuparmi dell’azienda, che da trent’anni esiste sotto il nome Antonino Caravaglio. Negli anni novanta presi dei terreni in acquisto e in affitto per ingrandirla e li vitai a malvasia per incrementare la produzione del passito, riconvertendo parte dei vigneti esistenti, impiantando nei terreni in affitto che poi nel corso degli anni acquistai: dai 2 ettari iniziali della famiglia, siamo arrivati ai 15 ettari di oggi.

D. la Malvasia non ha avuta sempre fortuna…
R. No. Cominciai in un periodo in cui la malvasia era in forte diminuzione come superficie di produzione. Ma, grazie alla tecnologia, le cose stanno migliorando. Salina è passata dai 25 ettari di vigneti dagli anni ‘90 ai quasi 100 ettari di oggi. Ai tempi non conveniva coltivare la vite perché era più facile la coltivazione dei capperi e, non essendoci più il mercato del vino sfuso, la produzione doveva essere finalizzata necessariamente alla vendita in bottiglia. Richieste di mercato, però, non ce n’erano. Così, l’effetto combinato tra emigrazione degli abitanti in Australia e, negli anni ’70, il turismo, gran parte della forza lavoro venne a mancare e i terreni furono abbandonati.

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D. Quando si verificò una situazione nuovamente favorevole?
R. L’unico che riprese la coltivazione della malvasia fu Hauner, proprio negli anni 70. L’ho conosciuto e sono stato suo socio per sei mesi. Quando uscii dalla sua azienda, mi diede il piccolo capitale che avevo investito inizialmente e, anche grazie a quello, riuscì a investire nella mia piccola azienda di famiglia.  Gli studi di agraria mi avevano fatto capire che laddove – allo stesso tempo – si produce, si trasforma e si vende, lì può nascere una buona attività imprenditoriale. Ragionando nell’ottica del completamento della filiera. Così indirizzai gli sforzi in tal senso: inizialmente vinificavo a Salina, poi trasportavo e imbottigliavo in una cantina terza di Milazzo. Dal ‘98 mi sono organizzato acquistando un piccolo imbottigliatore.

D. Quali sono stati i passi successivi?
R. La partecipazione alle grandi fiere, come per esempio il Vinitaly, la presenza nelle guide e, conseguentemente, un allargamento della clientela. Considera che oggi il 50% è venduto all’estero.

D. Quali prodotti avevi privilegiato?
R. Io ho iniziato con il vino più conosciuto delle Eolie, il Malvasia delle Lipari Passito. In quegli anni erano pochi i Passiti che venivano commercializzati ed era molto più facile vendere all’estero che in Italia, anche per una azienda poco o per nulla conosciuta. Trent’anni fa riuscivi a trovare molto più facilmente partner e aziende che condividevano il tuo progetto, e si consideri che il mercato all’estero è molto più ampio, mentre in Italia il mercato è decisamente più ristretto. Quando ti presentavi a un distributore, questo individuava la provenienza e assaggiava il prodotto. E se gli piaceva lo comprava. Quindi, nei miei viaggi mettevo il vino in valigia e partivo, per fare un esempio, ho fatto così a San Francisco.

D. Quindi il primo a intuire il potenziale della Malvasia fu Hauner
R. Si, lui è stato molto bravo a capire quanto il prodotto potesse essere apprezzato fuori dalle Eolie e bisogna riconoscergli di aver saputo creare anche il mercato. Nessun prodotto come il vino riesce a parlare bene del territorio e lui ha ricostruito l’interesse nei confronti di questo vino e quando iniziò lui la sua attività a Salina seppe sfruttare bene le sue amicizie con la stampa e con i giornalisti.

D. Anche bellezza delle Eolie avrà giocato il suo ruolo
R. Si, la nostra posizione geografica ci ha sicuramente aiutati, ma all’inizio non tutti sapevano dove fosse con esattezza Salina. L’isola più conosciuta è sempre stata Stromboli, per il vulcano, e questo non lo dimentico. Lì ho deciso di acquistare un terreno, una piccola vigna.

D. La Malvasia, per te, quando è diventata secca?
R. Nel 2008 ci fu una sorta di boom e tutte le cantine cominciarono a produrre Passito di Malvasia. Per me, invece, diventava sempre più impegnativo venderlo. Contemporaneamente si intensificava la richiesta, sia del mercato locale estivo sia quella generale, di un vino bianco del territorio. Allora ho pensato di iniziare con l’inzolia e il catarratto. Il passo successivo, vista a risposta molto positiva, è stato quello di vinificare la malvasia normalmente, senza appassimento.

D. Quando?
R. La mia prima prova è avvenuta nel 2009. Presi la migliore uva per il passito perché non volevo fosse una prova di serie B, ma volevo che ci fossero le condizioni ideali per ottenere un vino di punta. Ottenni un vino bianco che aveva delle caratteristiche molto interessanti, una bella freschezza, una gran bella acidità. Infatti, non ci si deve sorprendere, il vino passito non è mai stucchevole. La malvasia di Lipari nasce come vitigno da uva da vino, da sempre; è un vitigno molto antico. Nel suo DNA ha queste caratteristiche e fa sì che il vino abbia una bella freschezza e una bella acidità, quella spina dorsale che dà vita al vino. E nel caso del Passito mantiene questa bella freschezza che non lo rende mai stucchevole. Avevo anche anticipato la vendemmia, non volevo che la malvasia per il Passito fosse l’ultima uva della vendemmia, con l’appassimento si concentra tutto, zucchero, sali minerali, acidità. Anche nel prodotto dolce si ottiene una acidità e una mineralità maggiore, interessante, che dà freschezza al prodotto. Così facendo abbiamo dato una seconda vita al vitigno, non solo come vino dolce, ma anche come vino bianco secco che dura nel tempo. Si mantiene tranquillamente per diversi anni. Il processo di appassimento è fondamentale, il sole è fondamentale in questo processo. Funge da catalizzatore per i processi biochimici che sono fondamentali per la creazione di precursori degli aromi che si sviluppano nel tempo. Una parte si svilupperanno durante la fermentazione e una parte durante l’affinamento del vino. Questa è una caratteristica della malvasia.

D. Per le altre isole agisci diversamente?
R. Per me le Eolie sono un unico territorio. A Salina, per il Passito, coltivo la malvasia. A Lipari ho un appezzamento di tre ettari nel quale coltivo corinto nero. Si trova all’interno di un cratere dove la fillossera non è mai attecchita perché il terreno è ricco di cenere, sabbia e pomice. Alcune piante sono pre-fillossera, moltiplicati per margotta o con il metodo da “vite in fosso” (si stende la vite in un fosso, sotterrandola, senza mai tagliare il tralcio che si nutrirà con le radici della pianta madre. Questa è una tecnica antichissima. All’interno del cratere le piante sono molto rigogliose perché c’è il ristagno di umidità, di brina, entra da ponente. Ma il cratere è uno dei pochi terreni in cui la produzione può risentire delle gelate, siamo in quota; poi, con il freddo, il ristagno di umidità rischia di gelare durante la notte. Per questo faccio le potature sempre dopo il 15 marzo. A volte all’interno del cratere trovo la nebbia.

D. A Stromboli?
R. A Stromboli ho realizzato una piccola azienda con un mio amico, Andrea Montanari. Abbiamo impiantato nel 2016 e la prima uva, poca, l’abbiamo raccolta nel 2019. La prima vera vendemmia è avvenuta nel 2020. Sento l’isola dentro e quando passo molto tempo fuori non vedo l’ora di tornare. Mia madre sperava che noi restassimo fuori perché sull’isola la vita è molto sacrificata, ma ha sortito l’effetto contrario.

D. Sul fronte burocrazia e autorizzazioni cosa mi dici?
R. Abbiamo creato il Consorzio e un piccolo laboratorio per le analisi. Abbiamo lottato affinché le isole minori avessero la priorità nell’assegnazione dei diritti di impianto. Quando ho iniziato potevo sostituire solo le viti secche o morte – si contavano i singoli ceppi –  e l’autorizzazione atteneva solo quelli esistenti. Per il resto, la mia è stata tra le prime aziende a produrre con certificazione in biologico, da circa trent’anni: abbiamo sempre pensato che un vino debba essere buono non solo per chi lo beve ma anche per la terra che lo produce. Io faccio agricoltura contadina, non biodinamica, ma solo perché faccio quello che facevano i nostri antenati.

D. La ristorazione apprezza la produzione eoliana?
R. Negli ultimi anni i ristoratori locali contano molto sui nostri vini, ma all’inizio non era così. Stiamo lavorando affinché questo coinvolgimento sia sempre più importante. Quando un turista viene alle Eolie e beve un bicchiere di vino mentre è in vacanza, è un ricordo che si porta, una sensazione che rivivrà per tutto il resto dell’anno. Poi, lo cercano, lo chiedono, lo ordinano, per ancorare il ricordo di quelle sensazioni.

D. Quale futuro per le nuove generazioni?
R. In questo territorio abbiamo tre denominazioni: IGP Salina, DOP Malvasia delle Lipari e DOP Cappero delle Eolie. È un territorio ricco che deve fare sempre più sistema e, grazie all’impegno di tutti, stiamo crescendo. L’obiettivo è continuare a impiantare nuove superfici e di coinvolgere soprattutto i giovani nell’attività agricola.

MC